L’opera di Roussel, fondata sullo sdoppiamento semantico del linguaggio, nasconde così a fondo la sua origine che essa sembra riapparire dalla parte opposta, quella dell’evidenza. Già alla prima lettura si manifesta infatti una netta scissione tra due termini che si suppongono generalmente correlati: la trasparenza degli oggetti e degli eventi si oppone qui paradossalmente alla loro leggibilità. La disarmante visibilità con cui le macchine rousseliane espongono il loro funzionamento, esplicitano il segreto della loro apparente assurdità, negando ogni riferimento all’esterno, ogni minima finalità, è fenomeno in grado di sconcertare ed infastidire qualsiasi lettore, qualora non sia in possesso della chiave predisposta dall’autore allo scardinamento di questo desolante paesaggio narrativo: in Comment j’ai écrit certains de mes livres, breve testo di cui Roussel ha programmato accuratamente la pubblicazione postuma, viene svelata la natura artificiale e combinatoria delle sue opere, scaturite dall’elaborazione logica di materiali narrativi prodotti da procedimenti di dislocazione semantica di unità di linguaggio, prese arbitrariamente.
Rileggendo le pagine che sembravano non rimandare ad alcun significato, si ammette con stupore che esse non fanno altro che mimare il segreto che le ha generate, il procedimento cachè dietro la trasparenza del testo, sotto le forme più svariate. Ma l’interesse che suscita questa altrimenti banale opzione metanarrativa è nella segretezza del suo svolgimento, nascosto fino all’ultimo con accuratezza maniacale, e nell’elezione di tale nascondimento a tema narrativo, in un raddoppio costante dell’autoreferenza del testo.
Fin dagli esordi, la dialettica tra visibile e nascosto si rivela attiva nell’utilizzo ricorrente del gioco di mascheramento del teatro e del carnevale, motivo che reitera la sua gratuità da La doublure a L’inconsolable, a Tètes de carton du carnaval de Nice, tutti poemi in alessandrini ancora estranei al procedé. Quando l’insistenza delle regole finirà per pressare intollerabilmente la chiusura del mondo fantastico rousseliano (autosufficiente, autotestuale), Roussel sarà spinto a concentrare le sue figure una sull’altra, l’opera e il procedimento che la genera e l’urgenza delle proprie ossessioni. Negato ogni riferimento letterario (neanche agli amati Verne, Loti, Coppéé…), aborrito ogni ricorso all’esperienza (Roussel, instancabile viaggiatore, ci riferisce che «da tutti questi viaggi, non ho mai ricavato nulla per i miei libri. […] per me l’immaginazione è tutto»[1]), il testo ricostruisce una rete di rapporti utilizzando sé stesso, si fa doublure stratificando in un’immagine gli stadi concentrici della sua produzione.
La doppiezza rousseliana non è mai risultato di una contrapposizione tra figure antagoniste, ma di una sovrapposizione di figure legate da rapporti gerarchici: c’è la ricerca di una dimensione perpendicolare alla linearità del testo, che coinvolga un livello più esterno di realtà, sottostante. La radicale assenza di profondità che si contesta alle opere rousseliane appare allora come un’ingegnosa restaurazione semantica del senso primo, geometrico, del termine profondità, fuori dall’inevitabile arbitrarietà di ogni giudizio tematico. Principio che porterà Roussel ad organizzare le sue tarde Nouvelles Impressions d’Afrique per aperture inesauste di parentesi concentriche, dove nelle profondità delle faglie del discorso si disperde il senso già precario del testo narrativo.
Rispetto alle categorie tradizionali della narrazione, la sovrapposizione metanarrativa del procedimento inverte il rapporto logico tra la superficie del testo e ciò che vi è dietro, il suo modo di produzione: il romanzo classico si prodiga per garantire la veridicità del suo mondo narrativo, riproduzione più o meno conforme dei rapporti logici che regolano le interazioni tra noi, gli altri e il mondo esterno. E’ la logica del mondo che regola i meccanismi dell’opera, informando di sé la logica del testo: sono posti in subordine (se non addirittura relegati nella inattingibilità) il come e il perché proprio quelle parole si allineino sul foglio proprio in quell’ordine, l’insieme degli insiemi di tecniche atte a riprodurre verosimilmente la corretta articolazione di rapporti del reale.
L’attitudine combinatoria di Roussel produce, all’opposto, delle narrazioni che infilano descrizioni di oggetti od azioni inverosimili in un tessuto consequenziale sbrillentato ed artificioso, come risultato di un’operazione tecnica di assemblaggio calcolata nei minimi dettagli, che mira ad ottenere «una specie di equazione di fatti […] che si trattava di risolvere logicamente»[2]. Con ciò intendiamo solamente inserirci nel gioco della ricerca delle inversioni della scrittura rousseliana rispetto alla narrativa classica; è un’occupazione che trova terreno particolarmente fertile, e costituisce un filone trasversale della storia della critica rousseliana, inaugurato in Italia da Sergio Solmi nel 1942:
Il romanziere ordinariamente perviene dalla narrazione alla descrizione; seguendo il flusso della prima, trascinato dal movimento del racconto, giunge alla stasi descrittiva. Roussel procede esattamente all’incontrario: descritto lo spettacolo, interviene la narrazione come spiegazione del primo.[3]
Che l’iperbole della tecnica produca l’assurdo è fenomeno non nuovo per gli amanti del manierismo figurativo o letterario, ma insidioso quando le logiche di produzione vengano occultate: così accadde che il nascente gruppo surrealista, con il loro corredo di teorizzazioni sugli “automatismi psichici”, s’infatuò delle apparentemente ingenue gallerie grottesche del teatro rousseliano, difendendone i presupposti (da loro pre-supposti fino alla completa travisazione) di fronte al coro di indignazione generale, peraltro più che giustificato. Ciò che era visibile a lettori e spettatori era effettivamente la negazione di ogni qualità letteraria, giudizio confermato anche a posteriori dai più ferventi corifei del culto rousseliano. Così lo stesso Solmi attribuisce a Roussel
una impressionante deficienza delle qualità elementari d’uno scrittore: lo stile, il sentimento, la fantasia. Si aggiunga la mancanza di quel gusto letterario, di quella cultura specializzata, di quella coscienza degli ideali del tempo che sono comuni anche agli autori più sprovveduti.[4]
Che tale giudizio non sia squisitamente soggettivo o legato ai naturali tempi di metabolizzazione critica lo confermano le più circostanziate affermazioni di Alain Robbe-Grillet:
Nessuna trascendenza, nessun superamento umanistico si può attribuire alla serie di oggetti, di gesti, di avvenimenti che compongono, fin dalla prima occhiata, il suo universo […], mai questi elementi hanno un “contenuto”, una profondità, in nessun caso possono costituire un sia pur modesto apporto per uno studio del carattere umano o delle passioni, un sia pur piccolo contributo per la psicologia, una sia pur minima meditazione filosofica. In effetti si tratta sempre di sentimenti apertamente convenzionali (amore filiale, dedizione, grandezza d’animo, slealtà…) oppure di riti “gratuiti” o di simbolismi facilmente riconoscibili o di filosofie fuori uso […] Il suo stile è incolore e neutro. Quando esce dalla sfera della constatazione […] finisce col cadere nell’immagine banale, nella metafora più trita […], una prosa che passa dal borbottio monotono e insignificante a laboriosi grovigli cacofonici […]: Raymond Roussel non ha niente da dire e lo dice male…[5]
L’innegabile culto di cui gode quest’autore nel novecento non solo letterario è effettivamente legato non ai contenuti qualitativi della sua opera, ma al fenomeno Roussel, alla peculiare enigmaticità della foresta di richiami che egli stabilisce tra piani testuali ed extratestuali diversi. La trappola ordita ai danni del suo ermeneuta consiste in un meccanismo perfetto di differimento della risoluzione interpretativa, mantenuta sempre visibile alla distanza dell’orizzonte. Proveremo a descrivere questa sorta di fenomenologia dell’interpretazione rousseliana: entrando da qualsiasi lato del suo testo si è investiti da un insostenibile fardello di vacuità, che innesca il gioco dell’interpretazione e lo alimenta indefinitamente; la supposta “ingenuità”[6] di Roussel lascia intravedere un ordine, una chiave risolutiva che non è mai situata sul livello dell’oggetto d’indagine, ma in uno strato più profondo; ma il fenomeno si ripete per ogni livello successivo, determinando una deriva che regredisce ad infinitum.
Un maestro della lettura filosofica della profondità, ancora Michel Foucault, dedica a Roussel una monografia che costituisce il miglior repertorio di spunti sulla sua scrittura, seppure ognuno isolato nel suo picco interpretativo; così egli riporta il fenomeno sopra individuato, in riferimento soprattutto alla “madre di tutte le analogie” della scrittura rousseliana, quella tra la strategia supertestuale della rivelazione differita e la rivelazione postuma del procedimento in Comment…:
L’opera sarebbe allora costruita su tutta una disposizione a piani di segreti che si comandano, ma senza che nessuno di loro abbia valore universale o assolutamente liberatorio. Fornendo una chiave all’ultimo momento, l’ultimo testo sarebbe come un primo ritorno verso l’opera con una doppia funzione: aprire, nella loro architettura più esteriore, certi testi, ma indicare che per questi e per gli altri è necessaria una serie di chiavi delle quali ciascuna apre la propria scatola, e non quella più piccola, più preziosa, meglio protetta che vi si trova contenuta.[7]
La «disposizione a piani di segreti» inesauribili può assumere il nome filosofico dell’enigma, che è effettivamente l’attributo più frequente nella descrizione dell’attività rousseliana[8], anche se in termini generici e indifferenziati dal concetto di segreto; giova invece riportare l’attenzione sulla specificità del carattere enigmatico, così tratteggiato da Mario Perniola:
A differenza del segreto che si dissolve nella sua comunicazione, l’enigma ha la capacità di spiegarsi simultaneamente su molteplici registri di senso tutti egualmente validi ed apre uno spazio intermedio sospensivo che non è destinato ad essere colmato.[9]
Ma è un fatto che l’enigma rousseliano non manifesta una inesauribilità immanente, ma la costituisce solamente in effetto di una strategia autoriale mirata al concatenamento interminato di segreti; il carattere enigmatico in Roussel è pura apparenza, evocata da una combinatoria di segreti che gioca a nascondere la causalità dei fenomeni sotto la superficie di una maschera mitica, che si pone in prima istanza come enigma muto da decifrare, la cui potenza suggestiva viene successivamente sgretolata e derisa dalla impietosa messa a nudo dei suoi ingranaggi.
La concezione anti-enigmatica si concreta del resto in una particolare strategia narrativa utilizzata nelle sue opere principali: in Locus Solus e in Impressions d’Afrique la narrazione consiste esclusivamente nell’itinerario attraverso una sequenza di fenomeni straordinari, ognuno dei quali viene passato attraverso due stadi: una descrizione dell’evidenza “muta” dei fenomeni, su cui si concentra l’enigma, ed una spiegazione minuziosamente cronachistica e desacralizzante delle meccaniche che li hanno determinati (in Impressioni d’Africa le descrizioni mute sono raccolte nella prima parte dell’opera, le spiegazioni nella seconda, come ad amplificare l’effetto della loro esplosione antitetica). La disgregazione del pathos simbolico originato dall’aggregazione ermetica di segni incongrui assume nel testo rousseliano un irresistibile effetto parodistico, che mina alla base ogni tentativo di interpretare la sua opera in termini enigmatici.
Decostruito l’enigma, rimane il problema dell’organizzazione della sua finzione nella combinatoria di passaggi segreti architettata da Roussel all’interno della sua opera: lo spazio testuale in cui questo meccanismo è situato non coincide allora con la struttura a “scatole cinesi” di Foucault, che è solo ipotizzabile, ma assume la forma topica del reticolo di collegamenti analogici, di echi e di rimandi stabiliti da Roussel tra i vari livelli della sua produzione: l’inesauribilità dei percorsi interpretativi non deriva così dalla semiosi illimitata implicita nel segno enigmatico, ma da una semiosi reticolare che stabilisce in una prefissata forma chiusa un’infinità parziale di percorsi tracciabili nella mappa delle segnature predisposte dall’autore tra i nodi del suo universo letterario.
Ed è proprio in questo carattere reticolare della scrittura che si manifesta più intensamente la combinatoria rousseliana: figura ipostatica che ritroveremo costitutiva nelle pieghe tecniche del procedé, ma che nel suo significato più ampio si propone come principio generale dell’operare rousseliano, finalizzato in tutte le sue forme alla costruzione di reti astratte di collegamenti fra le cose, alla combinazione dei discorsi secondo le dinamiche totalizzanti che descriveremo sotto il concetto di sintesi.
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[1] Come ho scritto alcuni miei libri (Comment j’ai écrit certains de mes livres, in Comment j’ai écrit certains de mes livres, Paris, J. J. Pauvert, 1963, pp. 11-35), trad. it. di Paola Dècina Lombardi, in appendice a Locus Solus, Torino, Einaudi, 1975, p. 279.
[2] Come ho scritto alcuni miei libri, op. cit., p. 23.
[3] Sergio Solmi, Raymond Roussel, un padre del surrealismo, in La salute di Montaigne, Firenze, Le Monnier, 1942, p. 163.
[4]id. , pp. 157-8.
[5] Alain Robbe-Grillet, Enigmi e trasparenza in Raymond Roussel, in Il Nouveau Roman, Milano, Sugar, 1965, pp. 97-98.
[6] Cfr., tra gli altri, Michel Leiris, Roussel*, l’ingenu*, Paris, Fata Morgana, 1987.
[7] Michel Foucault, Raymond Roussel, Bologna, Cappelli, 1978, p. 13.
[8] Oltre a Foucault («sovranità delle parole con le quali l’enigma innalza scene mute», p. 19) e al già citato Enigmi e trasparenza in Raymond Roussel di Robbe-Grillet, cfr. ad es. Henry Matthews, Le théâtre de Raymond Roussel: une enigme («Archives des Lettres Modernes», VII, n° 175, 1977, pp. 1-100).
[9] Mario Perniola, Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 16.