Anche Gian Carlo Roscioni, pur criticando le interpretazioni rousseliane incentrate esclusivamente sul procedimento[1], ritiene opportuno connettere questo primo procedé ad un differente fenomeno culturale: quello della nascita dei miti. Muovendo da un’affermazione di Michel Leiris («come se [Roussel] si fosse prefisso di illustrare la teoria di Max Müller secondo cui i miti nascerebbero da una specie di “malattia del linguaggio”»), Roscioni ci conduce à rebours, attraverso Sklovskij, Saussure e Bréal, alle ipotesi mülleriane:
…un’interessante teoria su quella che egli chiamava la «dimenticanza» delle vicende attraversate da vocaboli e sintagmi nel corso dei tempi: la mente umana – asseriva -, ignorando le diverse fasi del processo che ha portato una parola dal suo significato originario a un significato metaforico, sostituisce ad esso dei passaggi surrettizi, legando con un’invenzione, con un racconto immaginario o mito, la stazione di partenza e quella di arrivo.[…] Una sorta di meccanismo automatico, proprio del linguaggio, aveva favorito nella leggenda come nella lingua – dirà Saussure – la «combinazione di elementi inerti».[2]
La potenzialità narrativa della distanza tropologica sembra così essere confermata e moltiplicata dalla sua capacità di formare gli stessi archetipi letterari. Anzi, afferma Roscioni, l’uso che ne fa Roussel è consacrante, rivelandone una funzione positiva nella sua produttività narrativa, al contrario del giudizio di Müller che la considerava una disfunzione del linguaggio che dà luogo a un «pericolo di mitologia».
Lo stesso materiale immaginario rousseliano manifesta parentele con quelli dei racconti mitici di ogni tempo e luogo, ripresi con tale evidenza da essere sottoposti, per Roscioni, ad un processo di parodizzazione, analogo a quello da noi rintracciato nella decostruzione del pathos simbolico:
Non penso soltanto agli episodi biblici o ai miti greci registrati negli elenchi di Nouvelles Impressions […]; e neppure alle scene, descritte o raccontate in altre opere, di cui sono protagonisti Meleagro, Enea, Atlante, Gesù, Maddalena, ecc. Mi riferisco piuttosto a quella pseudomitografia e a quell’aneddotica apocrifa che, costruite in margine a tradizioni culturali autentiche, formano tanta parte del corpus narrativo rousseliano.[3]
Roscioni fornisce un elenco significativo di questi falsi riferimenti rousseliani ad eterogenei archetipi letterari: leggende del ciclo arturiano o di molteplici origini locali, favole echeggianti quella di Pollicino o la tradizione orientale, ma anche fatti di cronaca da rotocalco, oltre «ai topoi “classici” della narrativa popolare, naufragi, tesori nascosti, sostituzioni di persona, eredità sottratte e recuperate, ecc.»[4].
L’intento di Roscioni è quello di stornare la nostra attenzione dalla meccanicità delle regole impiegate da Roussel, per definire delle fondamentali peculiarità della sua scrittura, alle quali ogni restrizione tecnica verrebbe comunque sottomessa: in posizione complementare al “viaggio al centro del procedimento” proposto da Foucault, Roscioni punta a delineare gli ambiti culturali di riferimento e i fenomeni letterari che si apparentano all’esperienza rousseliana, indagata con illuminante erudizione nei suoi aspetti più esteriori, dall’inclinazione al parodistico e al meraviglioso, a scorribande attraverso la paradossografia, l’inventario di mirabilia, la pseudobibliografia.
Michel Leiris, il primo divulgatore del procedé, oltre che di gran parte dell’aneddotica biografica su Roussel di cui disponiamo, aveva già messo in luce tali presenze:
Non è temerario pensare che la compilazione di un repertorio tematico dell’opera di Roussel permetterebbe di reperire in essa un contenuto psicologico equivalente a quello della maggior parte delle grandi mitologie occidentali; questo, perché i prodotti dell’immaginazione di Roussel sono, in qualche modo, dei luoghi comuni quintessenziati: per quanto sconcertante ciò possa sembrare al pubblico, egli attingeva – infatti – alle stesse fonti dell’immaginazione popolare e dell’immaginazione infantile ed inoltre, la sua cultura era essenzialmente popolare ed infantile (melodrammi, romanzi a puntate, operette, commedie musicali, fiabe, vignette…) come lo sono i suoi procedimenti (racconti ad incastro, formulette che servono di struttura al racconto e perfino il suo metodo creativo a calembours drammatizzati, che è l’equivalente letterario del meccanismo che si usa in certi giuochi di società, per esempio le sciarade in forma teatrale).[5]
Ma questo fondamentale contenuto mitico dell’immaginario rousseliano, lungi dall’allontanare l’attenzione dal dato tecnico dell’operazione, è in grado invece di evidenziare un’altra peculiare funzione della combinatoria letteraria: quella di custodire i materiali che assorbe, per renderli successivamente disponibili a nuove ricombinazioni. La combinatoria è uno strumento che organizza la compresenza di materiali eterogenei, che non vengono però fusi irreversibilmente nel processo compositivo, ma si mantengono inalterati e temporaneamente congiunti in una macrostruttura, che ne consente anche la successiva liberazione. Ne è prova l’attenzione riconosciuta degli autori combinatori alla salvaguardia degli ambiti che per definizione richiedono tale opera di custodia: quelli deperibili delle molteplici forme legate alla tradizione popolare e quelli transeunti depositati nel fluire della quotidianità. Ciò che assorbe e conserva la scrittura rousseliana è questo eterogeneo intersecarsi di materiali popolari fra loro combinabili; nella scrittura di Queneau tale compito si affrancherà da ogni griglia normativa per esercitarsi sulla salvaguardia e la promozione del francese parlato; l’attenzione sociologica di Perec si concentrerà invece sulla catalogazione degli oggetti che compongono tutti i nostri quotidiani, fin sotto la soglia dell’infraordinario; in Calvino, infine, l’interesse per la combinatoria verrà originato proprio dall’esperienza di riordinamento della tradizione narrativa orale delle Fiabe italiane.
Questa funzione di custodia è implicita anche nel termine adoperato da Roussel per definire la sua opera, che si costituisce come regno della concezione, come riportato da Leiris in base alle seguenti parole indirizzategli dallo stesso Roussel: «Vedo che, come me, preferite il mondo della Concezione a quello della Realtà»[6].
… in Roussel è come se il bello in quanto tale fosse privo d’importanza e come se, dell’arte, si dovesse prendere in considerazione solo l’invenzione, ossia la parte di pura concezione, per cui l’arte si distacca dalla realtà.[7]
Ma «concepire» vuol dire, sulla base dell’etimologia latina, «accogliere» (conceptus, da con-capio), organizzare uno spazio di accoglienza per materiali ricevuti dall’esterno. E’ questa organizzazione di uno spazio di molteplicità a polarizzare l’interesse teorico delle avanguardie sulla scrittura rousseliana, indipendentemente da ciò che essa decide di contenere. Ma parallelamente si sviluppa una direzione alternativa del culto rousseliano che privilegia proprio il contenuto archetipico delle manifestazioni del procedé, il repertorio di figure “popolari” che egli filtra attraverso una griglia di regole, per restituirli trasfigurati ma con inalterato valore mitico.
Il culto dell’opera rousseliana procede così per due vie totalmente differenti in effetto della duplicità costitutiva della sua scrittura, e dell’apparente paradosso da essa generato: la meccanicità fondamentale del procedimento è in grado di generare un universo meraviglioso che non cessa di stupire e di disorientare, l’ipercodificazione delle tecniche narrative assume sul piano della superficie visibile apparenze analoghe a quelle dell’acodificazione surrealista, la scrittura dell’automatismo puro senza mediazione. Ma la biforcazione del culto rousseliano appare ancor più paradossale in quanto aggira su due fronti proprio quella terza via che rappresenta l’usuale canale di diffusione di un’opera letteraria, ovvero l’ambito della cultura “ufficiale”: l’opera di Roussel non è in grado di integrarsi, per il suo oltranzismo, con gli schemi e i valori riconosciuti quasi unanimemente come costitutivi della letteratura.
Nous le savons: quoique signalé de loin en loin avec insistance par bon nombre de praticiens et théoriciens de la littérature, le travail de Roussel continue de subir, dans les sphères de la culture, une offuscation systématique. Face à cette roussellophobie têtue et comme par symétrie, s’est instaurée peu à peu une roussellophilie fervente, prête a recourir à toutes les procédures habituelles pour intégrer a la culture un travail que la culture a jusqu’ici refusé.[8]
Le ragioni di questo misconoscimento sono legate all’attacco implicito che la pratica rousseliana apporta ai valori culturali dell’Opera (che in lui si costituisce con un lavoro microscopico di assemblamento di materiali derivati da processi in parte casuali, e che si pretendono del tutto automatici) e dell’Autore (il procedimento compositivo è comunicabile e replicabile da altri autori).
Il culto di Roussel si eleva quindi del tutto naturalmente sui fronti sperimentali dell’avanguardia letteraria, che sorvolano i canoni della cultura istituzionale. Ma è proprio qui che si produce un altro degli infiniti paradossi rousseliani: la propagazione del suo immaginario, incompatibile con i territori della Letteratura con la Elle maiuscola, li aggira non solo dal disopra, ma anche, stupefacentemente, dal disotto: i materiali rousseliani risultano facilmente digeribili anche dagli ambiti sottoculturali, che ne replicano gli elementi inizialmente in forma parodistica, determinandone un successo involontario dovuto alle loro potenzialità meramente spettacolari. L’immaginario rousseliano si insinua nelle produzioni paraculturali ritagliandosi un’influenza “sottotraccia” di cui è facile rintracciare l’origine storica nell’iniziale scandalo provocato dalle sue pièces teatrali, che lo esposero ad un ridicolo di ampia risonanza pubblica. L’insuccesso letterario di Impressions d’Afrique aveva portato Roussel, su suggerimento di Edmond Rostand, a tentare la via di una sua riduzione teatrale, con i seguenti risultati:
Fu più di un insuccesso, fu un coro di proteste. Mi si trattava da folle, si «faceva il verso» agli attori, si gettavano monetine sul palcoscenico, lettera di protesta erano inviate al direttore.[9]
E’ al secondo tentativo, con Locus Solus, che la propagazione dell’opera rousseliana si biforca irreversibilmente in due grandi bacini di utilizzo, quello superculturale dell’influenza sulle avanguardie letterarie, e quello subculturale dello sfruttamento “popolare” e spettacolare della bizzarra icasticità del suo arsenale d’immagini. Da un lato, infatti, si condensa attorno ai suoi lavori «un gruppo di ferventi sostenitori»[10], ovvero il futuro gruppo surrealista. Dall’altro, la superficie visibile delle sue opere comincia a godere di un’ampia diffusione, anche se sotto il carattere dello scherno[11]:
Ma finalmente un risultato era ormai ottenuto, il titolo di una delle mie opere era celebre. In tutte le riviste di varietà, quell’anno, ci fu una scenetta, su Locus Solus, e due riviste vi si ispirarono per il loro titolo: Cocus Solus (che, più fortunata del mio lavoro, suo padrino, superò la centesima replica) e Blocus Solus ou les bâtons dans les Ruhrs.[12]
Questa celebrità indiretta, che fece passare l’idea errata di un Roussel mistificatore, si propagò parallelamente alla fortuna (postuma) dei suoi caratteri sperimentali. Non risulterà quindi sorprendente, seppure apparentemente paradossale, l’estrema naturalità con cui i risultati della più complessa alchimia avanguardistica novecentesca siano utilizzabili anche nei contesti narrativi più vulgati e semplificati e popolari. Gli oggetti scomponibili dall’opera rousseliana non provocano il rigetto se trapiantati in un tessuto narrativo “popolare”, proprio perché è della loro stessa sostanza che sono costituite le sue meravigliose macchine letterarie, perché cioè la sua invenzione non produce oggetti dall’interno di un’ardua alchimia sperimentale, ma li attira a sé e li conserva sostanzialmente inalterati nelle maglie accoglienti della combinatoria. Porteremo, solo a carattere di testimonianza, una traccia di affioramento popolare del suo culto, confrontata con un progetto che si muove nello stesso ambito, ma orientato verso l’altra direzione “sperimentale”.
Il cinema ha sistematicamente ignorato la complessa ipervisibilità delle opere rousseliane, forse temendo (a ragione) una ripetizione del tonfo già determinatosi sulla scena teatrale. Così risulta all’attivo solamente un cortometraggio (16’) di Maurice Bernart a metà degli anni Settanta, anch’esso peraltro defilato dalla rappresentazione diretta delle opere letterarie: La mort de Raymond Roussel narrativizza l’episodio biografico delle misteriose dinamiche della morte dell’autore a Palermo, nel solco di una tradizione interpretativa che fa capo a Foucault e a Sciascia, già affascinati dalle sue possibili analogie con le dinamiche del procedé [13]. Il film di Bernart è opera di ricerca e insieme d’interpretazione, come conferma il regista in un’intervista a Elisabeth Roudinesco[14]. Quando si penserebbe che le tracce della presenza rousseliana siano riscontrabili solo in questo limitato territorio di ricerca d’avanguardia, ecco presentarsi segnali inaspettati provenienti da tutt’altra direzione: nell’ambito che per antonomasia si pone come negazione stessa della ricerca, lo “spettacolificio” hollywoodiano, e in particolare ai vertici stessi del suo filone più patinato e di esclusivo entertainment, la commedia brillante di Billy Crystal, accade di trovare in Forget Paris questo dialogo, del tutto decontestualizzato dal plot narrativo:
Jack [John Spencer] (leggendo il giornale): – Hai visto che roba? Hanno riportato in vita Abramo Lincoln per pochi secondi.
Mickey [Billy Crystal]: – Quando?
Jack: – Ehm. L’hanno riesumato la settimana scorsa! E gli hanno somministrato una certa droga, il risuscitol.
Mickey: – Non mi dire!
Jack: – C’è scritto che ha detto qualche parola.
Mickey: – Quali sono state? «Mai più a teatro!»?[15]
Il riferimento è evidentemente alla resurrectine, la sostanza inventata dallo scienziato-demiurgo Canterel in Locus Solus, mediante la quale egli è in grado di ridare un’impressionante vita fittizia a cadaveri che, in effetto di quell’iniezione, ripetono senza posa un avvenimento saliente della loro vita, depositato per ultimo nella propria memoria. La funzione della citazione rousseliana nella gag di Crystal è di preparare il campo alla battuta finale, aprendo uno spazio ludico di grottesca inverosimiglianza: ed è estremamente significativo il ricorso a Roussel, la cui abilità nella costruzione di tale spazio viene segnalata come antonomastica, anzi talmente imprescindibile da infrangere l’idiosincrasia hollywoodiana per ogni forma di citazionismo letterario “impegnativo”. Ma ancora più stupore desterebbe l’ipotesi che si tratti semplicemente di un omaggio, inserito come “perla” nelle fibre della narrazione da un devoto rousseliano; quale immensa forza sotterranea dovrebbe possedere questo culto letterario per farsi spazio ed emergere in un territorio così ostile alla sopravvivenza della sua specie? Ricordiamo che si tratta di un autore del tutto sconosciuto al grande pubblico, uno scrittore per “addetti ai lavori”, e solo da una piccola parte di questi tollerato. L’originalità dell’opera di Roussel obbliga il lettore alla scelta risoluta tra il netto rifiuto e l’incondizionato abbandono al suo appeal ipnotico[16], al punto di essere spinto ad utilizzarlo, felicemente, nei più reconditi angoli della produttività narrativa.
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[1] «Il lettore di Roussel ha davanti a sé un mondo così omogeneo, forme e temi così peculiari e con tanta insistenza sottolineati, sviluppati, ripresi, che non può non vedere in questa fitta rete di rapporti e di fissazioni l’esito di una esperienza.[…] Se le storie di Locus Solus o di Impressions d’Afrique sono nate da accidentali accostamenti di vocaboli e di idee […], come mai il caso ha tante volte favorito l’estrazione degli stessi numeri?» (Gian Carlo Roscioni, L’arbitrio letterario: uno studio su Raymond Roussel, Torino, Einaudi, 1985, pp. IX-X).
[2] id. , pp. 7-9.
[3] id. , p. 21.
[4] id. , p. 23.
[5] Michel Leiris, Concezione e realtà in Raymond Roussel (1954), in appendice a R. Roussel, Locus Solus, Torino, Einaudi, 1975, p. 298.
[6] id. , p. 289.
[7] id. , p. 293.
[8] Jean Ricardou, Le Nouveau Roman est-il roussellien?, «L’Arc» n° 68, 1977, p. 62.
[9] Come ho scritto alcuni miei libri, op. cit., p. 282.
[10] ibid.
[11] Nel 1930 Jean Cocteau afferma: «E’ dal 1910 che sento ridere delle “rotaie in polmone di vitello” delle Impressioni d’Africa. Perché vorreste che il timore di provocare il riso sfiori Roussel? E’ solo» (Jean Cocteau*, Oppio*, Milano, SE, 1991, p. 127).
[12] Come ho scritto alcuni miei libri, op. cit., p. 282*.*
[13] Cfr. Michel Foucault, Raymond Roussel, op. cit. (cap. 1, La soglia e la chiave), pp. 7-17; Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Palermo, Sellerio, 1989.
[14] Cfr. Elisabeth Roudinesco, La mort de Raymond Roussel, «L’Arc», n° 68, 1977, pp. 3-8.
[15] Forget Paris, 1995, Castle Rock Entertainment, scritto da Billy Crystal, Lowell Ganz e Babaloo Mandel, diretto da Billy Crystal, 1° t., 24’ 30’’.
[16] Sull’esperienza del magnetismo rousseliano abbiamo una testimonianza di Cocteau: «Nel 1918 respingevo R. Roussel come uno capace di esercitare su me un fascino di cui non sapevo prevedere l’antidoto. Più tardi ho costruito di che difendermene. Posso contemplarlo dal di fuori» (Oppio, op. cit., p. 135). Per André Breton, «Roussel è, con Lautréamont, il più grande magnetizzatore dell’epoca moderna». Ed egli insiste proprio sull’umorismo rousseliano che, «volontario o no, (…) sta tutto in questo gioco di equilibri sproporzionati» (in André Breton, Antologia dello humour nero, Torino, Einaudi, 1996, p. 238).