Proviamo ad inseguire, almeno per un breve tratto, la discesa nelle profondità testuali che le dinamiche combinatorie impongono, poiché localizzate negli strati più remoti del processo compositivo. Conviene seguire da presso l’analisi foucaultiana di questo primo procedimento, che apre percorsi interessanti senza peraltro fornire una mappa topologica della loro interazione:
Passando dalla frase alla contro-frase siamo passati dallo spettacolo alla scena, dalla parola-cosa alla parola-replica. Effetto tanto più sensibile quanto la frase ripetuta non designi più le cose stesse ma la loro riproduzione: disegno, criptogramma o enigma, mascheramento, rappresentazione teatrale, spettacolo visto attraverso un occhiale, immagine simbolica. Il doppio verbale si trova portato esso stesso da un piano di ripetizioni. Ora parlando di questa ripetizione esatta, – di questo doppio molto più fedele di lui -, il linguaggio ripetitivo ha il ruolo di denunciarne il difetto di mettere alla luce il minuscolo strappo che le impedisce di essere la rappresentazione esatta di ciò che rappresenta […]. Come se funzione di questo linguaggio sdoppiato fosse di insinuarsi nel minuscolo intervallo che separa un’imitazione da ciò che essa imita, di farne sorgere uno strappo e di sdoppiarlo in tutto il suo spessore.[1]
Per Foucault, dunque, la contro-parola è un*’imitazione* della prima, che apre uno spazio ora non più tropologico (quindi di derivazione semantica), ma riproduttivo (che quindi, ponendo sullo stesso piano omonimie tropologiche, omonimie casuali e paronimie, vanifica l’interpretazione precedente), in cui viene segnalata e irrisa la degradazione del referente nel suo simulacro; interpretazione, questa, che presta il fianco a numerose perplessità: in primo luogo, le preferenze di Roussel scrittore vanno esplicitamente all’invenzione pura, alla costruzione di un mondo che si vuole esplicitamente altro rispetto al reale, parallelamente alla sua ossessione personale della sterilizzazione di ogni contatto con la realtà. La perenne ricerca di astrazione, evidenziata dall’intero panorama della critica rousseliana, porta quindi Roussel ad una costante fuga dalla realtà, verso il terreno rassicurante della sua riproduzione e ricostruzione, in un rapporto gerarchico inverso a quello ipotizzato da Foucault, che sostituisce qui le sue opzioni letterarie a quelle dell’autore. Ma è lo stesso squilibrio di valore tra conception e realité, qualunque sia il suo orientamento, che non può essere applicato per analogia al rapporto tra le due parole-genesi, che Roussel prende insieme, sullo stesso piano d’importanza, («sceglievo due parole quasi simili…»), fondando sulla loro complicità le sue pratiche testuali.
Se sul piano del valore le differenze tra i due omonimi sono nulle, su quello linguistico il procedé utilizza prevalentemente il potenziale espresso dalla loro distanza. Foucault, in una giusta attenzione alla dialettica tra identità e differenza che sottende l’utilizzo degli omonimi, opera una scelta, a nostro parere deviante, nella direzione di una loro fondamentale identità di base, fondando la sua impostazione sui concetti di doppio, di ripetizione, di circolarità: il percorso tra omonimi compiuto dal racconto è così visto come un itinerario tautologico la cui chiusura è imperfetta per un impercettibile clinamen interposto da Roussel nell’identità sdoppiata delle parole.
La ripetizione non è cercata e trovata che a partire da questa infima differenza[2] che induce paradossalmente l’identità […] La ripetizione e la differenza sono così bene intricate l’una con l’altra e s’aggiustano con tanta esattezza che non è possibile dire quale sia la primaria, e quale la derivata […] Profondità puramente formale che apre sotto il racconto tutto un gioco di identità e di differenza, che si ripete come negli specchi […]. E il linguaggio più semplice […] si trova preso sin dall’inizio del gioco in questo sdoppiamento indefinito del doppio, che lo imprigiona per mezzo dello spessore virtuale, ma senza la via d’uscita d’uno specchio. Lo stesso ritorno s’affonda in uno spazio labirintico e vano…[3]
Foucault celebra qui l’apoteosi dell’indefinito, stordendosi in un tour de force che evoca e si dà in balìa di tutti gli anti-strumenti del pensiero tautologico: al doppio, la ripetizione e la circolarità si aggiungono lo specchio e il labirinto, a definire uno spazio critico in cui tutto si confonde con tutto in un vortice entropico.
La natura del procedimento, e delle tecniche adoperate da Roussel per saturarne i prodotti, si colloca invece esattamente sul versante opposto della ricerca di definizione, di analisi e sintesi di elementi “chiari e distinti” contrapposti alla caoticità del reale: la tensione compositiva che le frasi-genesi producono è dovuta proprio al loro essere polarizzate, alla distanza che tra loro intercorre; distanza interna al codice linguistico per definizione, poiché le parole nascono appunto per denotare un concetto e distinguerlo, per contrasto, da tutti gli altri.
Data l’uniforme difformità delle parole, quali di esse userà Roussel per instaurare una regola, per sottrarre il movimento del racconto alla casualità? Ma quelle in cui la differenza è più marcatamente segnalata, illuminata dal contrasto con il suo sfondo ideale: l’identità. Così, come ogni regola funziona in misura del corretto rapporto che istituisce fra costrizione e libertà, la prima contrainte rousseliana instaura il suo gioco a partire dalla convivenza di identità (nel significante) e differenza (nel significato) all’interno del segno linguistico, presenze che svolgono però funzioni diverse[4]: è l’identità a formare la regola, in quanto costrizione che fissa i limiti necessari del racconto, stabilendone l’unità; ma è la differenza che rende la regola produttiva, che crea l’apertura in cui si getta l’operosità rousseliana. Ritroviamo così in Roussel le due funzioni complementari già individuate nella combinatoria bidimensionale: quella produttiva e quella formante.
Lo stesso Foucault riconosce altrove (in congiunzione con Jules Verne) la funzione predominante della differenza polarizzante, anti-entropica del lavoro di Roussel sul linguaggio:
I grandi calcolatori di Jules Verne si impongono o ricevono un compito assai preciso: impedire che il mondo si fermi per effetto d’un equilibrio che gli sarebbe fatale […] Si tratta insomma di lottare contro l’entropia […] Incessantemente, contro il mondo più probabile – mondo neutro, bianco, omogeneo, anonimo – il calcolatore (geniale, pazzo, cattivo o distratto) permette di scoprire un fuoco ardente che assicura lo squilibrio garantendo il mondo dalla morte. […] Questa funzione del discorso scientifico (mormorio che va restituito alla sua improbabilità) fa pensare al ruolo che Roussel assegnava alle frasi che trovava bell’e fatte, e che spezzava, polverizzava e scuoteva per farne scaturire la miracolosa stranezza del racconto impossibile.[5]
Occorre a questo punto precisare le differenti ascendenze degli assi del linguaggio aperti contemporaneamente nelle frasi-genesi. La traslazione del linguaggio dal piano espressivo a quello generativo comporta, da parte delle parole elette da Roussel a rappresentanti di questa carica produttiva, l’assunzione di responsabilità precise e differenziate nei confronti del portato culturale del codice linguistico:
– l’asse tropologico si fa carico della storia del linguaggio, introducendola sotto le due forme diacroniche in cui si attua la traslazione della denotazione, quella metonimica (le lettres: dai segni alle carte che li contengono) e quella per sottocodificazione (il blanc: da colore, nel gergo diventa uomo bianco, in un altro sottocodice gesso da biliardo).
– l’omonimia casuale (le bandes) e la paronimia (billard-pillard) operano invece fuori dalla storia, nella ridondanza sincronica del linguaggio, testimoniando le potenzialità di senso dei sincretismi rintracciabili nei segni linguistici, a partire dalla simulazione d’identità che deriva da una più o meno esatta corrispondenza dei significanti.
Si potrà affermare, e giustamente, che tutto ciò sopravanza di gran lunga le effettive intenzioni dell’autore. Bisogna in questo caso precisare meglio la natura della sua volontà letteraria: Roussel non ha mai avuto la minima intenzione sperimentale, la sua adozione del procedimento era immediata e a carattere ossessivo, non teorico; non capì mai il motivo dell’interesse dei surrealisti per le sue opere:
Bien qu’on ait plusiers fois rappelé, à propos des représentations d’Impressions d’Afrique, le scandale d’Ubu roi, il n’avait pas lu Jarry; de même, il ignorait Apollinaire et vraisemblablement Rimbaud. Un jour, il me dit en riant: «On dit que je suis dadaïste; je ne sais même pas ce que c’est que le dadaïsme!»[6]
Al contrario, mirava ad un successo popolare ed incondizionato, alla «gloire» universale che l’applicazione invisibile del procedimento avrebbe garantito alle sue opere:
Il y a en moi une gloire immense en puissance comme dans un obus formidable qui n’a pas encore éclaté… Cette gloire portera sur tous les ouvrages sans exception, elle rejaillira sur tous les actes de ma vie.[7]
Lo stato di depressione che lo colpì a diciannove anni in seguito all’eclatante insuccesso de La doublure apportò una grave patologia al suo già precario stato di integrità psicologica, di cui ci rende notizia il dottor Pierre Janet, che lo ebbe in cura, e a cui dobbiamo le testimonianze dirette di questo precoce stato di estasi, che Roussel tentò in ogni modo di replicare negli anni seguenti:
Cette gloire était un fait, une constatation, une sensation, j’avais la gloire… Ce que j’écrivais était entouré de rayonnements, je fermais le rideaux, car j’avais peur de la moindre fissure qui eût laissé passer au dehors les rayons lumineux qui sortaient de ma plume, je voulais retirer l’écran tout d’un coup et illuminer le monde. Laisser traîner ces papiers, cela aurait fait des rayons de lumière qui auraient été jusqu’à la Chine, et la foule éperdue se serait abattue sur la maison.[8]
E’ questo l’orizzonte di attenzione che si aspettava di suscitare con le sue opere[9]; si capisce allora come non seppe mai spiegarsi l’incomprensione e l’ostracismo di pubblico e critica tradizionali. Il successo postumo di Roussel è coinciso con l’apertura dei suoi congegni compositivi, e con l’esplorazione degli inediti spazi narrativi in cui essi introducevano. In questo senso è necessario distinguere anche nella nostra interpretazione gli spazi virtuali aperti dalla manipolazione del linguaggio (la cui complessità è evidente, seppur narrativamente irrilevante), e il loro uso ristretto nell’operazione di assemblaggio effettuata dall’autore, poiché egli impiega nell’identico modo i differenti assi linguistici rintracciati. Ma bisogna anche osservare il meno che mediocre valore letterario degli esempi d’applicazione di questo primo procedimento portati da Roussel. Quali sono allora i rapporti di valore nella sua scrittura tra il procedimento e l’opera che ne è effetto? Per Julia Kristeva la prevalenza dell’azione nel lavoro compositivo rousseliano è evidenziata dal valore di resto che l’opera fatta viene ad assumere nella concezione dell’autore:
Il est entraîné à se représenter le livre comme le résultat, le reste de cette action, son effet récupérable er récupéré de l’extérieur […]. Par cette démarche qui scinde le livre en productivité et produit, en action et reste, en écriture et parole, et tisse le volume livresque dans l’oscillations ininterrompue entre deux pans à jamais séparés, Roussel a la possibilité – à notre connaissance unique dans l’histoire littéraire – de suivre pas à pas le développement du travail translinguistique, ce cheminement du mot vers l’image qui se fait en deça de l’oeuvre, de même que l’apparition et l’extinction, la naissance et la mort, de l’image discursive, cet effet statique du vraisemblable.[10]
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[1] Michel Foucault, Raymond Roussel, op. cit., pp. 29-30.
[2] L’«infima differenza» sarebbe il significato! Tale idea del segno linguistico è manifestamente alla base dei contenuti espressi dal passo citato.
[3] Michel Foucault, Raymond Roussel, op. cit., p. 31.
[4] Il concetto può essere elevato al quadrato: la tensione tra identità e differenza scaturisce dalla loro compresenza unita alla diversificazione di funzione. La regressione infinita tende agguati ad ogni angolo dell’opera rousseliana, fatto che costituisce un’attenuante generica alla condotta critica di Foucault, e che conferma la strategia del differimento interpretativo da noi individuata in Roussel.
[5] Michel Foucault, La tecnica narrativa di Jules Verne (1966), in J. Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, Torino, Einaudi, 1994, pp. XII-XIII.
[6] Michel Leiris, Documents sur Raymond Roussel, «Nouvelle Revue Française», n° 359, apr. 1935, pp. 578-79.
[7] Pierre Janet, Les Caractères Psychologiques de l’Extase, in Comment j’ai écrit certains de mes livres, op. cit., p. 126.
[8] id. , p. 127.
[9] In realtà, come nota Caradec, verso gli ultimi anni «ce qu’il recherche désormais, à défaut de la gloire qui lui échappe, c’est sa caricature: la notorieté» (François Caradec, Vie de Raymond Roussel, Paris, J. J. Pauvert, 1972, p. 46).
[10] Julia Kristeva, La productivité dite texte, in Recherches semiologiques: la vraisemblable, Paris, Seuil, 1968, p. 64.