L’evidente sinteticità rousseliana nell’esposizione degli episodi ha il suo fondamento nell’esistenza di un principio d’astrazione che permette d’identificare la successione degli elementi costitutivi di una narrazione come fabula: è l’essenzialità di quest’ultima che Roussel espone, il contenuto scheletrico di ogni possibile comunicazione narrativa, la sua identità sintetica. Questa è però spezzata da incredibili fasi descrittive, sovrabbondanti rispetto ad ogni canone mimetico costituito, che hanno per oggetto le improbabili macchine suggeritegli dal procedé, descritte con minuzia irritante. Come già visto, l’effetto indiretto di questa iperdescrizione è l’inversione del carattere tradizionale della stasi descrittiva, ovvero la naturalizzazione del paesaggio narrativo, la resa simulata delle informazioni connotative assicurate nella realtà dai dati sensoriali; in Roussel l’eccessiva profondità dello sguardo descrittivo diventa invece straniante, amplifica sensibilmente l’improbabilità del paesaggio che evoca.
Apparentemente questo iperdescrittivismo risulta inconciliabile con la sintesi, di cui nega la peculiare esigenza di brevità; ma «sintetico» equivale effettivamente a «succinto»? Nell’uso quotidiano del termine è senz’altro così; tuttavia ad una riflessione più attenta si può notare come la brevità non rappresenti il contenuto specifico della nozione di sintesi, ma una sua conseguenza: sintetizzare vuol dire, per Roussel, ridurre un oggetto ai suoi fattori primi, eliminarne le escrescenze superflue alla definizione della sua specificità; ma se la narrazione trova una sua sintesi specifica nella riduzione a fabula, a cosa possono essere ridotte le fantastiche macchine rousseliane? Una macchina è definita principalmente dalla sua funzione (un ventilatore, un frullatore), è definibile in ragione della sua funzionalità pratica; senza di essa, la macchina si riduce alla somma dei suoi ingranaggi, l’unica sintesi a cui è sottoponibile è quella della descrizione della sua interezza: l’iperdescrizione dei congegni rousseliani opera così tramite un fenomeno che potremmo chiamare di dilatazione sintetica, che gira inutilmente attorno all’oggetto col fine di scomporlo in tratti essenziali, proposito irrealizzabile perché esso oppone il vuoto di un’assenza di finalità allo sguardo analitico; Roussel elabora «une mécanique gratuite, fonctionnant à vide, refusante de servir une humanité esclave de la machine, se prêtant seulement au jeu de l’imagination»[1]; se nella maggior parte dei casi un oggetto può essere sintetizzato in una misura minore, qui la sua indecidibilità costringe a descriverne microscopicamente tutti gli ingranaggi, in un discorso che assume una misura maggiore di ogni tradizionale spazio mimetico. Come nei processi di assiomatizzazione del linguaggio scientifico, descrivere sinteticamente un oggetto equivale a descriverlo esattamente, minuziosamente.
Ma la dilatazione descrittiva discende probabilmente da un fenomeno ben più rilevante: se Roussel non è obbligato a descrivere uno spazio reale, ma un territorio che nasce esclusivamente dall’interno del linguaggio, ne può regolare a piacere la densità, relativamente affrancata dalle esigenze della verosimiglianza; il procedimento in questo senso pone ancora dei vincoli al libero arbitrio di Roussel nel riempimento del suo spazio narrativo; la sua liberazione avverrà fuori del procedé, in uno spazio che si costruisce semplicemente dall’essere nominato, e quindi indefinitamente amplificabile. Questa forma non mediata di dilatazione descrittiva viene attuata in tre poemetti del 1903, La Vue, La source e Le concert. In La Vue l’accostamento dell’occhio ad una minuscola lente inserita in un portapenna rivela un paesaggio che lo sguardo fa esplodere in tutta la sua arbitraria estensione; nessuna combinatoria, nessun principio regola l’affastellamento delle immagini, che viene percorso inesorabilmente da una descrizione minuziosissima, una dilatazione inverosimile dello spazio microscopico della diegesi nello spazio accogliente della sua esposizione discorsiva. Sembra inutile cercare di comparare questo spazio dilatato con i paradigmi della visione “normale”: ciò che vuole segnalare è semplicemente la capacità del linguaggio di generare se stesso, fuori da ogni vincolo di misura della rappresentazione realistica e degli strumenti catottrici che consentono di osservare la fisicità del reale.
Operante fuori dalla combinatoria, la dilatazione nella Vue ne amplifica però l’evidenza dei presupposti teorici, l’autodeterminazione del linguaggio, che costituisce le proprie leggi e le proprie misure. Non a caso lo spazio che apre si trova ad essere frequentato anche da Calvino, che reca molteplici tracce di questo pellegrinaggio:
A Olinda, chi ci va con una lente e cerca con attenzione può trovare da qualche parte un punto non più grande d’una capocchia di spillo che a guardarlo un po’ ingrandito ci si vede dentro i tetti le antenne i lucernari i giardini le vasche, gli striscioni attraverso le vie, i chiostri nelle piazze, il campo per le corse dei cavalli.[2]
L’esplosione di possibilità evocate dalla vista non rimane qui nella pura virtualità; la dilatazione generata dalle capacità analitiche dello sguardo si concreta, e la città cresce «in cerchi concentrici, come i tronchi degli alberi che ogni anno aumentano d’un giro»[3].
Sempre nelle Città invisibili si scorge Laudomia, affiancata da due città-specchio: quella dei morti e quella dei non nati. In quest’ultima si può «contemplare in una sbavatura del marmo l’intera Laudomia di qui a cento anni, gremita di moltitudini […]; in ogni poro della pietra s’accalcano folle invisibili, stipate sulle pendici dell’imbuto come sulle gradinate d’uno stadio»[4]. Ma anche nella cosmicomica Tutto in un punto riappare questo spazio, che si costituisce in rapida espansione in effetto del solo nominarlo[5].
Più che con i fenomeni della percezione visiva, risulta utile allora confrontare questo spazio con analoghi luoghi di autocostituzione della letteratura: ad esempio quello dell’aleph borgesiano. Il «luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli»[6] condivide con la visione rousseliana la funzione di contenitore letterario di una molteplicità di oggetti, fantastica perché sproporzionata alla propria misura. Da questa comunanza si sviluppano diversi piani di differenze: l’aleph contiene una totalità, un numero di elementi incalcolabili ma non infiniti, esaustivo rispetto ad un insieme chiuso; l’immagine della Vue contiene invece solo una molteplicità, un insieme minore e circoscritto di cose, ma con la funzione supplementare di esemplificare l’infinità potenziale che quello spazio può contenere. Il primo è riferito inoltre all’esistente, ha una funzione referenziale da cui è delimitato, ovvero l’estensione reale del nostro mondo, di cui si fa visione totale[7]; mentre la seconda ha origine esclusivamente autoreferenziale, non si interessa alla realtà ma alle infinite possibilità di costruzione del linguaggio. Infine, come risultato delle considerazioni precedenti si identifica il movimento che ha originato l’aleph nella concentrazione dell’esistente in un unico punto, mentre la vue rousseliana è intepretabile come dilatazione da un singolo punto di potenzialità “virtuali” di costruzione di materiali a partire dal linguaggio. Paradossalmente, l’oggetto che per Borges riferisce sulla totalità del reale è di natura fantastica, mentre quello rousseliano che fa esplodere le potenzialità puramente linguistiche della conception è un oggetto reale, un semplice portapenne.
Come riconosce Roscioni, «se nella Vue compito di una figura o di un dettaglio era occupare uno spazio, un’infinitesima porzione della superficie della “minuta fotografia”, nel Concert e nella Source essi diventano pretesti per divagazioni psicologiche e ipotesi narrative»[8]. La dilatazione dello spazio fa sorgere un’ipotesi di fabula laddove prima dello sguardo unificatore c’era solo il vuoto assoluto d’ogni sostanza. Che lo sguardo, collegando le immagini isolate, sia in grado di restituire una narrazione, non è in dubbio: è l’identica dinamica dell’assemblaggio combinatorio posta in atto dal procedé. Esso propone una ulteriore dimensione dilatatoria operante nella scrittura rousseliana, ed inerente più in generale al meccanismo stesso della combinatoria: se la prima parte del procedimento deposita sul foglio rousseliano un gruppo di parole slegate, queste tessere semantiche verranno combinate in uno spunto narrativo estendendo i confini connotativi di ognuna fino ad un punto di giunzione. Se dall’apparecchio «Phonotypia» Roussel ricava «fausse note tibia» [nota stonata tibia], dalla giustapposizione di questi elementi non emerge nessuna narrazione: questa è raggiunta dilatando il contenuto semantico delle parole, istituendo dei ponti di significato che suppliscano all’impossibilità del loro diretto allineamento in narrazione, ricostruendo per ogni operazione la combinabilità degli elementi a disposizione; la narrazione non si costituisce che mediante la fuoriuscita delle parole da se stesse, costrette ad errare nello spazio vuoto della conception fino all’incontro ricercato con altre parole alla deriva, con cui istituire un rapporto.
E’ questo sforzo di dilatazione connotativa dei segni a fondare l’attività stessa della letteratura combinatoria: se la microcombinatoria e la codificazione linguistica agiscono sulle virtù combinatorie dirette degli elementi a disposizione (il prefisso col suffisso…), ciò che caratterizza la letteratura combinatoria è lo stabilire relazioni tra elementi semanticamente distanti, non direttamente combinabili; essi vengono a contatto mediante una dilatazione del loro contenuto, che si articola in discorso, e quindi in narrazione. Riconosciamo in Calvino anche questo fenomeno, segnatamente nell’operazione di dilatazione connotativa del contenuto semantico che nel Castello dei destini incrociati consente di organizzare le immagini dei tarocchi in tessuti narrativi.
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[1] Henry Behar, La gloire théâtrale de Raymond Roussel, in Etude sur le théâtre dada et surréaliste, Paris, Gallimard, 1967, p. 97.
[2] Italo Calvino, Le città invisibili, RR II 468.
[3] ibid.
[4] id., p. 477.
[5] Cfr. Tutto in un punto, in Le cosmicomiche, in RR II, pp. 122-23.
[6] Jorge Luis Borges, L’Aleph, in Tutte le opere, vol. I, op. cit., p. 894.
[7] Nonostante l’evidente predilezione per il concetto d’infinità, in Borges si attua spesso l’apparente paradosso della ricerca di una sua delimitazione: anche nella Biblioteca di Babele tale infinità è postulata come circoscritta e praticabile, come mostrano i tentativi dei suoi personaggi di trovare un determinato libro nell’infinità dei libri scrivibili (Cfr. La biblioteca di Babele, in Finzioni, id., pp. 680-89).
[8] Gian Carlo Roscioni, op. cit., p. 97.