La combinazione dei materiali “procedurati” consiste in un processo di tessitura verosimigliante della loro compresenza, secondo procedure ampiamente analizzate da Julia Kristeva; ma quale discorso narrativo può giungere a combinare verosimilmente materiali tanto eterogenei, in quanto di derivazione casuale? Evidentemente il carattere episodico di ciascuna aggregazione di elementi deve essere racchiuso in una narrazione-cornice tanto più generica quanto più incongrui appaiono i fenomeni che essa è chiamata a contenere; da qui l’apparenza di galleria di aneddoti e fenomeni straordinari che le opere rousseliane assumono. Ed ecco anche perché Roussel, in queste opere, non fa altro che descrivere: il racconto coincide interamente con la descrizione dello spazio di giunzione individuato tra oggetti ed azioni inizialmente senza relazione reciproca di significato; come la descrizione, nel racconto tradizionale, ha la funzione di “naturalizzare” allo sguardo del lettore lo spazio narrativo in cui è introdotto, in Roussel questa funzione diventa totalizzante, poiché è nella costruzione dello spazio “altro” della conception che si identifica esclusivamente la sua narrazione; raccontare è per Roussel descrivere il suo inedito spazio narrativo, fisicamente costituito dagli atomi linguistici messi a disposizione dal procedimento.
L’esclusivo descrittivismo rousseliano non poteva non risvegliare l’interesse di quella Ecole du regard che s’individua negli anni Sessanta all’interno del cosiddetto nouveau roman. Le differenti letture rousseliane dei tre principali teorici del movimento, Butor, Robbe-Grillet e Ricardou (la sola Nathalie Sarraute si è astenuta dalla gara) non danno spazio a contraddizioni interne al movimento, poiché in realtà solo l’ultimo procede (nel 1977) ad una reale valutazione complessiva dell’eredità rousseliana: per Ricardou allora l’influenza di Roussel sul nouveau roman è solo in parte ascrivibile al comune iperdescrittivismo, ma mette in gioco più dinamiche, fino allo stesso utilizzo dei procedimenti.
Lo sguardo interessato dei nouveaux romanciers sulla scrittura rousseliana è percorso da una mutazione di accenti interpretativi lungo l’arco degli anni Sessanta, che evolvono inesorabilmente verso la preminenza accordata al procedé sui materiali superficiali che ne sono espressione. Ancora nel 1960 Michel Butor dubitava del valore totalizzante dei procedimenti:
C’est évidemment qu’il ne s’arrêtait que lorsque sa trouvaille lui semblait ouvrir sur quelque chose. De sourdes intentions le dirigent dans le choix de ces échos, et l’approfondissement de ceux-ci lui permet de mettre au jour des paysages imaginaires auxquels son éducation, sa situation sociale, son personnage, semblaient devoir lui interdire à jamais l’accès.[1]
Butor non stabilisce alcun parallelo con altre esperienze letterarie (la sua, ad esempio), ma fornisce un’interpretazione originale di Roussel basata sull’insistita presenza di elementi ripetitivi nella sua opera, ponendola «sous le signe d’une répétition active»[2] che mira a riprodurre l’esperienza giovanile di «gloire universelle» il cui scacco ha determinato profonde crepe nella sua integrità mentale.
Sempre su un piano strettamente interpretativo si pone Robbe-Grillet, che privilegia ovviamente la muta oggettualità della scrittura rousseliana, l’effetto di trasparenza conseguente ad una strenua ricerca formale, implicando solo indirettamente un (evidente) parallelo con la sua personale esperienza di ascetismo stilistico. Come sottolinea Brochier, «Robbe-Grillet a trouvé en Roussel un monde de la représentation pure, qui exclut toute arrière-pensée, tout militantisme humaniste»[3].
Con Jean Ricardou entriamo in un decisivo impegno comparatistico che procede inesorabilmente alla scansione dei passi che conducono algoritmicamente alla soluzione della questione iniziale: Le Nouveau Roman est-il roussellien? Ciò presuppone una complessa illuminazione dell’aggettivo «rousseliano», che Ricardou fornisce in base a quattro fondamentali operazioni testuali, che individua successivamente come presenti anche nelle fibre di molti «nuovi romanzi», rispondendo così in modo affermativo al quesito iniziale: il descrittivismo esasperato, l’uso di parentesi sintattiche e diegetiche, le operazioni comparative, le omonimie produttive.
La descrizione rousseliana è considerata da Ricardou anti-evocatoria, quindi paradossale, perché «un effet d’hyper-réalisme (on décrit plus que les indications spatiales ne le permettent) provoque un effet antiréaliste (la finesse des détails est alors de l’ordre d’un invraisemblable)»[4]. Il nouveau roman si rifà alla tendenza rousseliana a disporre «divers éléments ou caractères simultanés selon une succession interminable. Accomplissant incessamment cette manière d’alignament scriptural, les descriptions minutieuses se trouvent induites à contredire ce qu’elles disent (leur apparent objectif réaliste: la simultanéité des éléments) par ce qu’elles font (leur pratique effective: l’épellation des éléments)»[5]; questa funzione anti-evocatoria della descrizione seriale si ritrova, ad esempio, in Le voyeur di Robbe-Grillet.
La seconda caratteristica rilevata nel descrittivismo di Roussel è relativa ad una sorta di trasmutazione dell’oggetto osservato:
Accordant à chaque détail des êtres et des objets une importance exorbitante, elle est conduite, s’il lui advient de rendre compte d’une image, à accroître ce qui est représenté au détriment de ce qui le répresente. Elle provoque da le sorte une espèce de transmutation: ce qui est initialement présenté comme une image change de statut et devient, à l’intérieur de la fiction, une manière de réalité.[6]
Il fenomeno risulta comune a molti nouveaux romanciers, che per sovvertire gli effetti di rappresentazione si servono di due procedure che Ricardou chiama capture («une scène prétendument réelle devient une simple représentation»[7]) e libération («une représentation, photographique par exemple, s’anime insensiblement et, repoussant insidieusement celle où elle figurait, accède à son tour peu à peu au statut de scène dite réelle»[8]). Ma l’operazione rousseliana è sensibilmente differente dalla libération di Ricardou, presenta caratteri insieme più sfumati e più generali, tanto da meritare un supplemento d’indagine.
Foucault, notando che la parola-genesi «lettres» non è utilizzata effettivamente in Impressions d’Afrique, avanza timidamente l’ipotesi che essa in realtà governi il testo in maniera differente:
Tutte le Impressions non sarebbero che delle lettere (segni e criptogrammi) scritte in negativo (in bianco), poi riportate sulle parole nere d’un linguaggio leggibile e ordinario. La parola «lettres» non farebbe parte del gioco, dato che le sarebbe riservato di designarlo nel suo intero. Ed io non posso trattenermi dal decifrare questa parola, proprio dal titolo: in questa indicazione d’una forma negativa che applicata su di una superficie offerta allo sguardo lascia di se stessa la propria immagine capovolta, dunque diritta (è così che «s’imprime» un tessuto).[9]
Una volta tanto, Foucault risulta eccessivamente prudente rispetto agli elementi che ha a disposizione; se il linguaggio ha la funzione di rappresentare il reale, da cui trae origine, in Roussel tale movimento s’inverte, richiudendosi su se stesso: il linguaggio è dotato di una forza generativa propria, e posto all’origine dell’opera, che si trova a rappresentare in oggetti reali (iperreali) il gioco linguistico che ne costituisce l’unico referente. Come sempre, nell’opera appaiono molteplici figure di questa inversione retrostante, tangibili nei numerosi esempi di oggetti reali che imitano rappresentazioni od oggetti simbolici nei tableaux vivants presentati dal Club degli Incomparabili in Impressioni d’Africa: la realtà imita la rappresentazione nella decapitazione senza sangue dei traditori, che ricorda quella dei fantocci a teatro (p. 17); si incide sul piede del falsario il testo della pergamena da lui falsificata (p. 17); «la perfetta identità dei gesti e la grande somiglianza fisica dei due fratelli (di cui uno era mancino) davano l’illusione che si trattasse di un unico soggetto, riflesso da uno specchio» (p. 24); un verme viene utilizzato come carillon animale, imitando un’imitazione artificiale della competenza musicale (p. 47); la riapplicazione sulla realtà dell’illusione è ciò che tenta Darriand con un’estasi ipnotica combinata con un sistema di proiezione di immagini (p. 87); dei quadri sono minuziosamente riprodotti all’interno di chicchi d’uva portati a maturazione improvvisa grazie a un fenomeno chimico (p. 98)…
In un universo originato dal linguaggio, le cose assumono la funzione della sua rappresentazione, il reale diventa l’astrazione dell’astratto, un “secondo grado” della fisicità referenziale linguistica. E’ questo il lascito più importante dell’opera rousseliana, legato anch’esso alle virtualità combinatorie degli atomi linguistici di partenza, tanto da trovare un corrispettivo persino nell’opera di Calvino: come Claudio Milanini evidenzia, i romanzi della trilogia dei Nostri antenati esperimentano la reificazione di comuni metafore, dal “sentirsi scisso”, al “vivere sugli alberi”, al “sentirsi vuoto”, di cui rovescia il carattere negativo[10]. Lo spazio linguistico del gioco combinatorio presenta proprie leggi fisiche che non possono non ripresentarsi nei contesti più diversi della letteratura combinatoria.
- - - - - -
[1] Michel Butor, Sur les procédés de Raymond Roussel, in Essais sur les modernes, Paris, Gallimard, 1967, p. 202.
[2] id. , p. 220.
[3] Jean Jacques Brochier, Alain Robbe-Grillet. Qui suis-je?, Lyon, La Manufacture, 1985, p. 31.
[4] Jean Ricardou, op. cit., p. 66.
[5] id., p. 73.
[6] id., p. 66.
[7] id., p. 73.
[8] id., p. 74.
[9] Michel Foucault, Raymond Roussel, op. cit., p. 40.
[10] Cfr. Claudio Milanini, L’utopia discontinua, cap. II, Milano, Garzanti, 1990.