Alla tensione dissolutoria insita nei giochi verbali e nella microcombinatoria oulipiana si affianca una fervida ammirazione per Nicolas Boileau e per gli edifici della codificazione poetica; è facile intuirne i motivi, così presentati da Calvino:
… che l’Art poétique sia considerata da Queneau «uno dei massimi capolavori della letteratura francese» non deve stupire, se si pensa da una parte all’ideale della letteratura classica come coscienza delle regole da seguire e dall’altra alla modernità tematica e linguistica.[1]
Jacques Jouet evidenzia ad esempio come i rapporti tra la rima ed il senso oscillino disinvoltamente nelle poesie di Queneau tra la concezione classica (per Boileau la rima è del tutto subordinata al senso) e quella opposta, sperimentale, in cui il senso viene piegato alle esigenze della rima. In Chêne et chien, ad esempio, Queneau si mostra fin troppo rispettoso del senso:
Fécamp, c’est mon premier voyage;
on va voir la Bénédictine.
J’admire la locomotive:
Je suis avancé pour mon âge.[2]
In questo caso «Queneau non scrive locomotine o Bénédective, cosa di cui sarebbe stato sicuramente capace. La rima deve essere comunque subordinata. Se è solo un’assonanza, poco male, è solo un’assonanza»[3]. Un secondo impiego registra invece la nascita di neologismi per la pura virtù creativa della rima, come in Les murs, dove troviamo, avvolti nelle fasce di un rigoroso rispetto della rima alternata, i neonati tatran e toutance [4]. Quest’uso anticlassico ha ovviamente i suoi precisi referenti, tra cui in particolare Hugo[5] e Mallarmé[6]. Sulle rime mallarmeane si appunterà anche in seguito il suo interesse[7], per la loro intima predisposizione al procedimento oulipiano dell’hai-kaizzazione: si cancella un sonetto conservandone solo le sezioni in rima, che vengono lette come una poesia unitaria. Queneau parla di ridondanza in Mallarmé, perché «si ha l’impressione che nella restrizione ci sia tanto quanto nell’intera poesia»[8]. E’ questa contenibilità della rima ad autorizzare sia l’hai-kaizzazione che l’invenzione neologistica.
Non tutte le poesie sono hai-kaizzabili, ossia non tutte le poesie si lasciano trattare – o maltrattare – così […]; in Mallarmé e in particolare nei sonetti di Mallarmé, ogni verso è un piccolo mondo, un’unità il cui significato viene in certo senso ad accumularsi nella sezione in rima, mentre in Racine o Victor Hugo, più ancora che in Molière o Lamartine, il senso corre in certo modo attraverso le rime e non si trattiene, non vi si può raccogliere.[9]
Ma esiste un’ulteriore possibilità di utilizzo della rima, che subordina a sé l’intero argomento della poesia. La produttività della rima si esplicita ad esempio in un componimento dell’Instant fatal, dal titolo A l’heure où…:
A l’heure où dorment les imbéciles
les oies du Capitole
comme des libellules
volent à tire-d’aile
loin des vestalespendant ce temps les Gaulois
n’en ratent pas une.[10]
Si tratta di una poesia le cui “rime” (il/ol/ul/el/al) comprendono successivamente le cinque vocali e nell’enunciato les Gaulois, in clausola, figurano nuovamente le cinque vocali e soltanto queste. Les Gaulois non si lasciano sfuggire neppure una vocale, si potrebbe dire parafrasando il testo. La poesia è oscura e sembra apparentemente un non senso, ma in realtà il senso sta nella sua forma.[11]
Questa produttività della rima, che Jouet assimila ai limericks di Edward Lear, ma che potrebbe essere concepita anche come antitesi alle Voyelles rimbaldiane, ha in realtà dietro di sé principalmente Raymond Roussel: ricordiamo che Roussel apparenta il suo procedimento alla rima, poiché «nei due casi c’è creazione imprevista dovuta a combinazioni foniche». Per Giancarlo Roscioni, peraltro, i prodromi di quest’uso totalizzante della rima erano già stati gettati da tempo: dalla metà del Seicento, quando entrò in voga l’esercizio dei «bouts-rimés», sonetti derivati dal riempimento logico delle code rimate dei versi, stilate preventivamente e scelte in ragione diretta della loro distanza semantica. Il giudizio dei letterati, tra cui quello di Banville, oscillava tra la disapprovazione e il riconoscimento di una certa abilità ai solutori di questi giochi.
I «bouts-rimés» potevano anche essere un gioco, ma questo gioco presupponeva la conoscenza e l’utilizzazione di proprietà creative del linguaggio legate alla tecnica combinatoria della rima.[12]
Nell’Ottocento Victor Hugo ricorre a procedimenti simili, trattati anche dal filosofo Renouvier, che parla a loro proposito di «metodo immaginativo»:
… accade che dopo aver posto come addentellato una certa parola, ci si obbliga in qualche modo – sempre che si possieda l’immaginazione necessaria – a usare qualsiasi altra parola rimi riccamente con la prima, e a ricavarne un’immagine comunque associabile al tema.[13]
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[1] id., S 1422.
[2] In Chêne et chien (1937), in œuvres complètes, op. cit., p. 9.
[3] Jacques Jouet, Senso e non senso: “Pour un art poétique” di Queneau, in Brunella Eruli, a cura di, op. cit., p. 45.
[4] Cfr. Les murs, in L’instant fatal (1948), in œuvres complètes, op. cit., p. 125.
[5] «In Booz endormi, al verso 81, Hugo si inventa, per rimare con “demandait”, la città di “Jerimadeth”, nome omofono alla frase “je rime à dait”, o meglio “j’ai rime à dait”. Così ha di che rimare con dait» (Jean Lescure, Piccola storia dell’OpLePo, op. cit., p. 41).
[6] Cfr. il “sonetto in x”, «Ses purs ongles…» (Stephane Mallarmé, œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1965, pp. 68-69), in cui la parola «ptyx» sarebbe stata creata «par la magie de la rime» (Lettre a Lefébure (31 mai 1868), id., p. 1488).
[7] Calvino ipotizza che «in Queneau l’ammirazione per Mallarmé forse si fondava anche sull’affinità nel temperamento taciturno, almeno a quanto suggerisce una lettera che mi scrisse»; così Stephane, il cavallo parlante ma laconico di Les fleurs bleues, deve il suo nome a Mallarmé, poiché «son œuvre fait – me semble-t-il, penser à la concision, sinon à la taciturnité» (cit. da I. Calvino, Nota del traduttore, in I fiori blu, op. cit., p. 270).
[8] L’opificio di letteratura potenziale, op. cit., p. 66.
[9] id., p. 67.
[10] In œuvres complètes, op. cit., pp. 103-4.
[11] Jacques Jouet, op. cit, p. 48*.*
[12] Giancarlo Roscioni, op. cit., p. 12.
[13] Charles Renouvier, Victor Hugo le poète, Paris, 1893, pp. 75-76 (trad. it. cit. da G. Roscioni, op. cit., p. 12).