Dall’analisi dell’opera di Raymond Queneau ci si aspetterebbe una decisiva illuminazione sulla natura della combinatoria letteraria: François Le Lionnais conia infatti l’espressione «letteratura combinatoria» proprio in riferimento ai suoi Cent mille milliards de poèmes. Eppure, come già visto, la nozione lionnaisiana fallisce il suo scopo, obbligandoci a ricostruirne il campo d’applicazione secondo due direzioni: l’uso di procedimenti compositivi che assumono forme derivate dalle operazioni combinatorie; la pulsione alla combinazione dei discorsi secondo modelli procedurali riconoscibili.
Nell’apparente abbondanza di questi due fenomeni nell’opera di Queneau è lamentabile però l’assenza della sospirata integrazione tra l’essere «letteratura» e l’essere «combinatoria». I procedimenti combinatori adoperati da Queneau sono irrimediabilmente squilibrati dalla parte d’una immediata applicazione delle formalizzazioni matematiche alle procedure d’invenzione e di analisi letteraria; essi non sono inoltre applicati alle misure letterarie fondamentali (romanzo, racconto, testo teatrale), ma si ritagliano uno spazio a sé, un ideale campo di sperimentazione in cui realizzare una sintesi da laboratorio tra i valori stranieri delle matematiche e quelli letterari, ad essi subordinati. La letteratura potenziale, in cui si attua più programmaticamente la combinatoria queneauiana, è cioè ancora una microcombinatoria, un fenomeno solo propedeutico alla letteratura combinatoria.
Dall’altro lato, nelle misure letterarie più tradizionali affrontate da Queneau, in primo luogo il romanzo, è effettivamente rintracciabile il modello d’una ricerca di coesistenza tra stili e generi letterari diversi: ma la combinazione di discorsi è realizzata quasi esclusivamente da una combinazione di modalità discorsive, secondo il modello reiterato degli esercizi di stile, in cui la serie di unità diverse non è sottoposta a regole dispositive combinatorie, ma assume lo statuto del catalogo, dell’elencazione.
La fondazione oulipiana tuttavia risulta fondamentale per la sua opera di mediazione, che familiarizza alla comunità letteraria un insieme di pratiche apparentemente aliene, mostrandone altresì i comuni principi anatomici con le specie letterarie delle varie poesis artificiose, e più in generale i rapporti con gli apparati scheletrici delle strutture poetiche più conosciute. Ma più che gli ultimi tentativi potenziali di Queneau, le cui dinamiche abbiamo del resto già ampiamente considerato, ci interessa qui evidenziare le molteplici risoluzioni della sua scrittura che entreranno come eredità fondamentale nell’attività di Perec, suo discepolo prediletto, e di Calvino; questa condivisione di opzioni letterarie contribuirà sensibilmente all’aggregazione di quel nucleo centrale della letteratura combinatoria novecentesca che allinea i nostri quattro autori.
E’ a Calvino del resto che si deve principalmente la diffusione nel nostro paese dell’opera di Queneau, con un lavoro costante di stimolazione interpretativa, che si concreta anche nella traduzione di Les fleurs bleus. Ed è lo stesso Calvino a ricordarci il precoce interesse queneauiano per Roussel:
Le collaborazioni di Queneau a «La critique sociale» consistono in brevi recensioni, raramente letterarie (tra le quali una in cui invita a scoprire Raymond Roussel: «un’immaginazione che unisce il delirio del matematico alla ragione del poeta»)…[1]
Queneau s’imbatte in Roussel probabilmente per la mediazione di Michel Leiris, col quale condivideva un passato da surrealista, oltre alla comune collaborazione ne «La critique sociale» (1930-34), organo dei dissidenti comunisti di Boris Souvarine. L’elezione di Roussel tra gli autori di riferimento del pantheon oulipiano manifesta a trent’anni di distanza la costanza di questo interesse, polarizzato sulla proceduralità dell’opera rousseliana e sull’universo interamente linguistico della conception. Una predilezione intensificata dall’interesse per i fous littéraires, «coloro la cui vita psichica, realmente anormale, differisce dai modi di pensare e di sentire della maggioranza dei loro contemporanei e si differenzia ugualmente dal sogno, dalle turbe psicasteniche e altre bazzecole patologiche»[2]; dal 1930 al 1934 progetta in questa direzione una Encyclopédie des sciences inexactes, rifiutata sia da Gallimard che da Denoël.
La fascinazione per le «scienze inesatte» conferma, nel suo rovesciamento, l’interesse preponderante per quelle esatte, di cui viene ricercata una prima forma di applicabilità al campo umanistico, secondo una linea di ricerca che costituisce il più riconoscibile carattere della scrittura di Queneau, per il resto così mobile e composita. La forma si contrappone al caos, la costruzione ortogonale della scrittura disegna un campo ideale del testo in cui la libertà compositiva, lungi dall’essere mortificata, viene invece esaltata, come spiega lo stesso Queneau fin dal 1938:
Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora.[3]
La regolamentazione ossessiva del materiale narrativo trae origine da questa esigenza di appropriazione totale della scrittura; non della sua superficie visibile, beninteso, ma dei fattori genetici che ne determinano la produzione. Calvino evidenzia nella condotta testuale di Queneau una definitiva «valorizzazione dell’opera costruita, finita e conchiusa (in precedenza se l’era presa con la poetica dell’incompiuto, del frammento, dell’abbozzo)»[4]: è un paradosso allora l’attività potenziale degli anni Sessanta? Certamente no, poiché è proprio l’ipercodificazione sul piano genetico che consente poi di lasciare in un certo senso “aperta” l’opera alle virtù ricombinatorie della lettura; il controllo sulla scrittura è così intensificato ed onnicomprensivo nel piano d’organizzazione da esaurire in esso l’horror vacui queneauiano; la scrittura potenziale, in realtà, lungi dal concedere uno spazio di libertà al lettore, si gratifica nel simulare tale indipendenza fruitiva, realizzando l’operazione contraria: è talmente sicura del suo controllo sul testo da impadronirsi anche della funzione di moltiplicazione delle letture possibili generalmente accordata al lettore.
L’ossessione queneauiana dell’ordine, «la sua generale esigenza d’inserire nell’universo delle “piccole zone di simmetria”»[5], ha un’epifania di natura prettamente polemica: dal 1924 al 1929 partecipa all’attività surrealista, in particolare nel sottogruppo di Rue du Château con Prévert, Tanguy e Duhamel. Queneau precisa che «come la maggioranza dei dissidenti dal gruppo surrealista, mi sono guastato con Breton per ragioni strettamente personali e non per ragioni ideologiche»[6]. Un’irresistibile caricatura del cenacolo surrealista viene offerta con Odile (1937), dove invece le divergenze teoriche sono impugnate da Queneau come strumento principale di amplificazione parodistica. Il suo alter-ego testuale, Travy, sospinge nel suo monologo quasi una sorta di anti-manifesto, rivendicando l’oggettività del mondo matematico:
Non esiste un solo mondo – gli dissi – , quello che lei vede o che crede di vedere o che immagina di vedere o che vuole vedere, quel mondo che toccano i ciechi, sentono i mutilati e annusano i sordi, quel mondo di cose e di forze, di solidità o di illusioni, di vita e di morte, di nascite e di distruzioni, il mondo in cui beviamo, in mezzo al quale siamo soliti addormentarci. Per quel che ne so io, ne esiste almeno un altro: quello dei numeri e delle figure, delle identità e delle funzioni, delle operazioni e dei gruppi, degli insiemi e degli spazi. C’è gente, come sa, che pretende si tratti solo di astrazioni, costruzioni, combinazioni. Vogliono far credere a una specie di architettura […]. Si tratta di descrivere un mondo, di scoprirlo e non di costruirlo o inventarlo, perché esiste al di fuori dello spirito umano e indipendentemente da esso.[7]
Indimenticabile il passo della sua introduzione nel circolo eletto dei seguaci di un Anglarès-Breton, che procede a una deformazione sistematica del suo discorso:
“ Ma in definitiva che cosa esplora? ”
“ Il mondo delle realtà matematiche.”
“ E come lo esplora? ”
“ In tutti i modi.”
“ E lei dice che questo mondo sfugge al dominio della ragione? ”
“ Mi pare di sì.”
“ Ci sarebbe dunque come un inconscio matematico,” disse il mio interlocutore con viva soddisfazione, e rivolgendosi subito agli altri annunciò:
“ Ecco dunque la ragione ancora una volta vinta; in tutti i campi l’inconscio vincerà.”
Questa notizia suscitò l’entusiasmo generale…[8]
E’ al dominio parallelo della matematica che Queneau si riferirà costantemente per imbrigliare lo sviluppo dei suoi prodotti letterari. Questo mondo altro è inteso sempre nelle sue opere come specchio in cui rifrangere gli umori del mondo questo. L’ossessione dell’ordine numerologico viene così ad invertirsi di segno, e a connotare gli ambiti del poetico e del delirante, secondo un movimento già presente in Odile:
Perdetti allora più di una volta traccia della mia esistenza e il mio delirio prendeva la forma di cifre, e queste cifre esprimevano dei numeri dalle proprietà ostili e malevole. Si coagulavano, si dissolvevano, si diversificavano, si corrompevano come volgari esseri viventi o prodotti chimici.[9]
E’ ancora al mondo dei numeri che ricorre per un’intensificazione cosciente della tecnica narrativa, insieme all’adozione di semplici e riconoscibili moduli testuali; anche l’adesione al linguaggio delle cifre è peraltro sempre esplicita e denunciata, quasi esteriore, al contrario dei complessi meccanismi di rimando e di occultazione rousseliani. Già nel 1937 si trova a riassumere con profusione di dettagli i meccanismi di progettazione dei suoi primi tre romanzi, linee guida strutturali più che procedimenti:
Le chiendent, Gueule de Pierre e Les derniers jours, esprimono tutti uno stesso tema, o piuttosto delle varianti di uno stesso tema e, conseguentemente, hanno tutti e tre la stessa struttura: circolare. Nel primo il cerchio si chiude e raggiunge esattamente il punto di partenza: la qual cosa è suggerita, forse grossolanamente, dal fatto che l’ultima frase è identica alla prima. Nel secondo, il movimento circolare non ritrova il punto di partenza, ma un punto omologo, e forma un arco di spirale: il segno finale dello Zodiaco, i Pesci, non si pone sullo stesso piano dei pesci-animali. Nel terzo, infine, il ciclo è soltanto più stagionale, in attesa che le stagioni scompaiano: il cerchio si spezza in una catastrofe: cosa che il personaggio centrale dice esplicitamente nell’ultimo capitolo.[10]
Segnaliamo en passant l’esteriore riferimento a Roussel nell’identità tra l’incipit e l’explicit di Le chiendent. Ma è soprattutto il pathos dell’ordinamento numerologico ad emergere dalla descrizione dei primi principi attivi della sua tecnica romanzesca, i cui tratti formali si piegano a circoscrivere unità di significato “personali”, quasi una firma cesellata sottotraccia nelle fibre dell’opera:
Sarebbe stato per me insopportabile affidare al caso il compito di fissare il numero dei capitoli di questi romanzi. Così Le chiendent si compone di 91 (7 % 13) sezioni, dove 91 è la somma dei primi tredici numeri e la sua somma è 1, cioè è al tempo stesso il numero della morte e quello del loro ritorno all’esistenza […]. In quel tempo, vedevo nel 13 un numero benefico, perché negava la fortuna[11]; quanto al 7, lo prendevo e lo prendo ancora come immagine numerica di me stesso, perché il mio cognome e i miei due nomi sono composti di sette lettere ciascuno e sono nato il giorno 21 (3 % 7). Benché apparentemente non autobiografica, la forma di questo romanzo era dunque determinata da questi motivi affatto egocentrici: essa affermava in tal modo ciò che il contenuto credeva di celare.[12]
L’identificazione numerica è ovviamente vezzo di lunga tradizione, risalente al simbolismo numerologico medievale: Charles Singleton, come risultato di una stringente indagine sui canti centrali della Commedia dantesca, afferma che anche per Dante «il 7 è il numero del poeta e va considerato come il suo numero, nel poema in cui tanti dei numeri che compaiono sono di Dio»[13].
Il gioco dell’autoreferenza non è quasi mai concepito da Queneau in termini di trasferimento diretto di dati autobiografici (se non in Odile, che è anche l’unico romanzo affidato alla narrazione in prima persona), ma avviene di preferenza tramite un piano intermedio, una traduzione in termini formali dei riferimenti; questi ultimi del resto non mirano ad introdurre nel testo la soggettività dell’autore, bensì qualche esteriore dato sulla sua identità. Così il gioco reiterato dell’elaborazione dei contenuti del proprio cognome:
Partendo dalla voce normanno-piccarda per «quercia», quesne, e da quelle normanne per «cane», quenet e quenot, egli ha letto nel suo cognome la compresenza di due opposti principi e vi ha costruito una figurazione allegorica di conflitto psichico.[14]
Claude Debon indaga anche la stessa chiendent («gramigna») in riferimento al cognome di Queneau, rinvenendone le tracce in alcune poesie in cui l’identificazione è reiterata[15]; del resto la gramigna rimanda anche ad un dato più direttamente autobiografico, alle graminacee responsabili dell’asma, malattia di cui Queneau soffre fin dal 1923, e che appare spesso nelle sue opere (ne soffre ad esempio Des Cigales in Loin de Rueil ). Ma è la possibilità stessa di disimpegnare il riferimento autobiografico riflettendolo in una superficie formale a costituire una lezione che sarà profondamente recepita sia da Perec che da Calvino.
Nei romanzi successivi, in verità, la chiave strutturale si flette sempre più alle composite sollecitazioni che li costituiscono, slegandosi da ogni forma di regolamentazione esterna agli oggetti trattati; è da questi ultimi che essa viene fatta derivare, in virtù di un principio di astrazione del contenuto che esprima valori strutturali isomorfi da assumere come forma.
Non ci sono più regole dopo che esse sono sopravvissute al valore. Ma le forme sussistono eternamente. Ci sono forme del romanzo che impongono alla materia trattata tutte le virtù del Numero: una struttura che nasce dall’espressione stessa e dai diversi aspetti del racconto, connaturale all’idea direttrice, figlia e madre di tutti gli elementi che essa polarizza, si sviluppa e trasmette alle opere gli ultimi riflessi della Luce Universale e gli ultimi echi dell’Armonia dei Mondi.[16]
I romanzi queneauiani fanno vibrare le loro strutture sulle lunghezze d’onda dei molteplici valori letterari che l’autore di volta in volta pone come oggetto di ricerca. Converrà così seguire l’analisi operata da Calvino di questi tratti caratterizzanti, «necessari per saldare in una figura unitaria tutti i piani dello sfaccettato poliedro»[17].
Su quali basi teoriche Queneau è in grado di giustificare la sua incessante costruzione di passaggi sotterranei tra i domini adiacenti delle due culture? Calvino riporta un passo fondamentale, nel quale Queneau estrae dagli ambiti della Scienza e dell’Arte un’identica costituzione genetica:
L’ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell’esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? […] che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c’è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l’insieme, la funzione più di quanto “conosciamo” la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d’esprit. Perciò l’intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l’altra attività umana: l’Arte.[18]
Matematica e letteratura sono accomunate dagli attributi di tecnica e di gioco, e attraverso questi due tunnel Queneau può incessantemente stabilire contatti che “cuciono” fortemente i due domini in tutti i differenti tessuti letterari costruiti successivamente dalla sua penna combinatoria. Abbiamo già considerato le ragioni del gioco linguistico microcombinatorio, i cui fondamenti sono dunque per Queneau comuni ad ogni attività letteraria; se tutta la letteratura è combinatoria, la nostra «letteratura combinatoria» lo è alla seconda potenza: la contrainte esibita rimanda a tutte le restrizioni che agiscono e definiscono interamente lo spazio letterario; l’offerta allo sguardo diretto del lettore del gioco combinatorio applicato alle figure letterarie gli “parla” della natura dell’intera letteratura. In altre parole, la letteratura combinatoria si costituisce come figura iperbolica della combinatorietà della letteratura.
Anche Calvino, sulla scorta delle teorie di Gombrich (e, beninteso, dell’esempio di Queneau), procede a connettere il gioco della microcombinatoria direttamente alla intera «narrativa come processo combinatorio»:
Il procedimento della poesia e dell’arte – dice Gombrich – è analogo a quello del gioco di parole; è il piacere infantile del gioco combinatorio che spinge il pittore a sperimentare disposizioni di linee e colori e il poeta a sperimentare accostamenti di parole; a un certo punto scatta il dispositivo per cui una delle combinazioni ottenute seguendo il loro meccanismo autonomo, indipendentemente da ogni ricerca di significato o effetto su un altro piano, si carica di un significato inatteso o d’un effetto imprevisto, cui la coscienza non sarebbe arrivata intenzionalmente…[19]
Il gioco del combinare è così propedeutico alla costituzione del senso, operazione che ha luogo su un piano di lettura delle combinazioni: è quest’ultimo dato che fa parlare Calvino di una prossima morte della figura dell’autore, poiché «smontato e rimontato il processo della composizione letteraria, il momento decisivo della vita letteraria sarà la lettura»[20]. Ma è più importante, ai nostri fini, evidenziare che per Calvino il meccanismo del gioco di parole (la microcombinatoria) è solamente «analogo» a quello della letteratura: in mezzo c’è la letteratura combinatoria, forza mercuriale che espone in vetrina la permutazione degli elementi del linguaggio, dei motivi narrativi, degli oggetti del mondo, solo per convincere che, in definitiva, la letteratura non è mai stata altro che un movimento sotterraneo di processi combinatori.
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[1] La filosofia di Raymond Queneau (1981), S 1415.
[2] Comprendre la folie, in appendice a Jacques Jouet, Raymond Queneau. Qui êtes-vous?, Lyon, La manufacture, 1988 (trad. it. cit. da Giacomo Magrini, Nota biografica a R. Queneau, Zazie nel metró, Torino, Einaudi, 1994, p. 170).
[3] Che cos’è l’arte? (1938), in Segni, cifre e lettere e altri saggi, op. cit., p. 207.
[4] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, op. cit., S 1414.
[5] ibid.
[6] Conversation avec Georges Robemont-Dessaignes, 1950 (trad. it. cit. da Giacomo Magrini, op. cit., p. 170).
[7] Odile, op. cit., p. 22.
[8] id., p. 37.
[9] id., p. 105.
[10] Tecnica del romanzo (1937), in Segni, cifre e lettere e altri saggi, op. cit., p. 46.
[11] Ancora però in Les fleurs bleus (1965), come nota Calvino, «un intervallo di 175 anni separa le apparizioni del Duca d’Auge nella storia» (Nota del traduttore (1967), in R. Queneau, I fiori blu, Torino, Einaudi, 1995, p. 265). Conoscendo Queneau, come potrebbe essere privo di significato un intervallo temporale così anomalo? Evidentemente, 1 + 7 + 5 = 13!
[12] Tecnica del romanzo, op. cit., p. 46.
[13] Charles Singleton, Il numero del poeta al centro, in La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 459.
[14] Giacomo Magrini, op. cit., p. 168.
[15] Cfr. Claude Debon, Queneau e le erbacce della retorica, in Brunella Eruli, a cura di, op. cit., pp. 35-42. Debon rimanda ad altri giochi queneauiani sul proprio cognome, nelle poesie Don Evané Marquy, Le Temps passé, Viellir (R. Queneau, œuvres complètes, a cura di Claude Debon, Paris, Gallimard, 1989, rispettivamente pp. 106, 69, 301).
[16] Tecnica del romanzo, op. cit., p. 49 (mio il corsivo).
[17] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, op. cit., S 1410.
[18] La matematica nella classificazione delle scienze (1938), in Segni, cifre e lettere e altri saggi, op. cit., p. 310.
[19] Cibernetica e fantasmi, op. cit., S 220-21.
[20] id., S 215.