La nascita dell’Ou.Li.Po, emanazione del Collegio di ‘Patafisica di Jarry, avviene nel 1960 sotto la spinta d’aggregazione del puro divertimento, che accomunava i soci fondatori: di qui il carattere balbettante delle loro iniziali manipolazioni teoriche, che usufruivano di apporti ed intenzioni eterogenee[1]. Venne quindi delimitato il campo della ricerca di nuove strutture letterarie, con l’intento di fornire un intero arsenale di possibilità che sottraessero lo scrittore al dominio dell’affettività nell’ispirazione letteraria, in attuazione del dettato di Queneau: «Il vero ispirato non è mai ispirato, lo è sempre»[2]. Le fondamenta poetiche di questo programma consistevano ovviamente nella convinzione dell’oggettualità del linguaggio e quindi della letteratura, i cui prodotti si situano in un concreto di altro tipo da quello fisico, su cui è possibile operare scientificamente; l’oggetto verbale è posto alla stregua dell’oggetto fisico, solo su un piano di astrazione più esterno:
Il ricorso all’astratto in Queneau significa soltanto la scelta di un sistema di concretezza insieme antichissimo e nuovo: la letteratura stessa.[3]
All’oggettualità desacralizzata della letteratura si riferisce il termine ouvroir, i cui caratteristici connotati di operosità artigianale hanno trovato un corrispettivo in italiano nella traduzione “comunicativa”[4] operata da Campagnoli con opificio (Op.Le.Po.)[5]. I prodotti di questa fucina recano tutti il sigillo di qualità d’una virtualità potenziale, rovesciando la nozione che considera un manufatto artigianale come pezzo unico: l’uno di questi prodotti racchiude in sé una molteplicità costitutiva di possibilità, poiché non risulta iscritto all’anagrafe letteraria come opera, ma come regola di produzione di opere. Ovviamente vengono forniti esempi di applicazione d’ogni procedimento creato in vitro, ma l’interesse non cade mai sull’effettiva vitalità che le neonate strutture potranno manifestare in futuro, ma sul processo di smontaggio e rimontaggio dei rapporti fra costrizione e libertà le cui dinamiche fanno secondo gli oulipiani tutt’uno con la letteratura. L’influenza del laboratorio oulipiano sulle opere letterarie più impegnative dei suoi migliori adepti (dal co-fondatore Queneau a Perec a Calvino) si attua su binari esterni all’organismo, non ne costituisce minimamente un fine ricercato, ma al massimo uno sprone narcisistico che retroagisce sull’entusiasmo di questi manovali letterari. Da questo punto di vista, l’OuLiPo è funzione autosufficiente dalla letteratura, poiché qualsiasi opera che usufruisce delle sue pratiche non ne convalida le opzioni teoriche, che rimangono antecedenti ad essa.
Fin dall’inizio si è scelto il doppio versante temporale della ricerca e classificazione di esempi oulipiani ante litteram («plagi per anticipazione» secondo la Lepo analitica) e nella proposta ex novo di procedimenti (Lepo sintetica), in cui si concentra lo sforzo più assiduo, che dall’iniziale natura prevalentemente sintattica si muoverà progressivamente verso orizzonti semantici.
Il mirino oulipiano si appunta sul concetto di potenziale letterario senza un’iniziale messa a fuoco dell’oggetto[6], che si precisa successivamente attraverso una regolazione “trifocale” del concetto:
1) La visione “standard” riguarda la produzione di nuove e sensazionali regole compositive che si pongano in competizione con le tradizionali forme letterarie: la forma-sonetto (termine di confronto per eccellenza, amorevolmente coccolato e rielaborato dagli oulipiani) fu già alla sua nascita prodotto “potenziale”, in quanto sistema di regole “vuoto” da riempire con infinite occorrenze. Questo elementare potenziale delle strutture letterarie si carica nel lavoro oulipiano di maggiore complessità per l’intrusione sistematica in questo campo delle formalizzazioni matematiche, che estremizzano il rigore delle restrizioni fino a identificare talvolta il lavoro poetico in uno sforzo “agonistico” nella risoluzione dei problemi compositivi autoimpostisi: non a caso gli oulipiani parlano di se stessi come «topi che vorrebbero uscire dal labirinto che si sono costruiti»[7].
2) Ma l’eccessività delle restrizioni non è carattere costante della produzione oulipiana: il già citato, archetipico metodo S + 7 produce composizioni in modo assolutamente automatico, senza alcuna opposizione al loro conseguimento. Ricordiamo che Berge riconosce in questa «ricerca di metodi di trasformazione automatica di testi» una «seconda vocazione oplepiana, che apparentemente non ha alcun rapporto con la prima». Un rapporto potrebbe forse essere ipotizzato qualora si speculi adeguatamente sul carattere strumentale che la letteratura assume nelle griglie concettuali dell’OuLiPo: gli oggetti verbali di cui la letteratura ha disseminato i secoli sono combinazioni di segni infinitamente riproducibili, costanti al variare delle convenzioni grafematiche e dei codici in cui possono essere comunicati; ciò che l’OuLiPo farebbe sarebbe semplicemente saltare il fossato semiotico che considera questi oggetti nella loro unicità di messaggio, e considerarli alla stregua di regole di autoriproduzione: scritta una volta una poesia, per riprodurla bisogna rispettare le restrizioni fissate dalla successione dei suoi elementi; un’opera sarebbe quindi solamente un caso particolare d’una struttura letteraria, o meglio il caso estremo in cui la molteplicità di possibilità di riempimento d’una struttura è vincolata dalla riproduzione d’una sola combinazione valida.
I metodi di trasformazione di testi non sono esenti da restrizioni, ma introducono gli stessi prodotti letterari come vincoli restrittivi. Alle restrizioni arbitrarie, a quelle del codice linguistico e dei sottocodici retorici e poetici bisogna aggiungere questo nuovo, fondamentale ordine restrittivo. Il secondo potenziale indagato dagli oulipiani ha come oggetto l’opera letteraria stessa, potenziale che coincide con la trasformabilità infinita dei testi, consentita proprio dalla loro oggettualità, dall’essere costituiti di particelle minimali, atomi linguistici infinitamente manipolabili. A far esplodere il potenziale metamorfico dei testi letterari interviene un sistema di regole che non è struttura letteraria, ma medium formalizzato che vincola l’infinita trasformabilità alla produzione di un solo risultato per volta. Il braccio armato di questa tendenza è l’Istituto di Protesi Letteraria, fondazione oulipiana tra le più ludicamente vivaci:
Chi non ha avvertito leggendo un testo (qualunque ne sia la qualità) l’interesse che ci sarebbe a migliorarlo con qualche ritocco pertinente? Nessuna opera si sottrae a questa necessità. Tutta la letteratura mondiale dovrebbe essere oggetto di protesi numerose e giudiziosamente concepite.[8]
3) Il terzo potenziale è relativo alla produzione di opere che, come negli esempi di proteo citati più sopra, racchiudano in una forma unica una molteplicità di composizioni risultante da determinate regole di permutazione o combinazione degli elementi di partenza. Esso risulta ad un’attenta analisi come combinazione degli altri due: il secondo potenziale (trasformativo) vi appare in quanto viene fornita una composizione di partenza, quindi un testo letterario ben determinato; il primo potenziale (strutturale) interviene tramite la fornitura di una sistema di regole che gestisca la produzione di tutte le altre composizioni. Il risultato è un oggetto letterario che congiunge le proprietà del testo e quelle della struttura, definendo un potenziale interno della propria forma molteplice.
Così ai tempi delle creazioni create, che furono quelli delle opere letterarie che conosciamo, dovrebbe seguire l’era delle creazioni creanti, suscettibili di svilupparsi a partire da se stesse e al di là di se stesse, in modo nel contempo prevedibile ed infinitamente imprevisto.[9]
Il potenziale interno realizza sul piano della forma «ciò che i capolavori hanno prodotto in modo secondario o come in sovrappiù»[10] su quello del contenuto, ovvero l’apertura delle interpretazioni, che è potenzialità infinita ma non totale, se ci è concesso esprimerci mediando la nozione di teoria degli insiemi che mira a discernere le gerarchie tra i vari infiniti. Se «dire che un testo è potenzialmente senza fine non significa che ogni atto di interpretazione possa avere un lieto fine»[11], il potenziale del testo letterario mima sul piano formale questa condizione del contenuto, ma amplificando la facoltà demiurgica dell’autore, in modo che la pluralità costitutiva dell’intentio operis sia in ogni momento riconducibile all’originario progetto dell’intentio auctoris: ciò si realizza provvedendo un insieme di regole che gestiscono la molteplicità del testo secondo binari già previsti nel piano di composizione. Questo carattere di organizzazione interna d’una pluralità costituisce il nodo forse più interessante della nozione di potenziale letterario, estrapolabile dall’attività oulipiana che invece si muove sui terreni accidentati più eterogenei in funzione della loro potenzialità ludica, che in definitiva è l’unico vero fattore in grado di unificare l’attività dell’OuLiPo.
Non ci soffermeremo sull’esemplificazione dei procedimenti poiché molti sono già stati trattati nei paragrafi precedenti, ed altri ne troveremo lungo l’itinerario che da Queneau e Perec porterà alle proposte più tecnicamente oulipiane e combinatorie di Calvino. Le valenze combinatorie già presenti nella poesis artificiosa dei secoli passati sotto le spoglie della regolamentazione eccessiva delle restrizioni linguistiche, qui germinano dovunque grazie all’utilizzo preponderante di formalizzazioni d’origine matematica. Il potenziale letterario costituisce la possibilità stessa d’una struttura formale di accogliere e combinare una molteplicità di discorsi diversi in una particolare modalità di presenza-assenza, in cui tutte le possibili combinazioni consentite dalla rigidità delle restrizioni sono già implicite in un nucleo originario di elementi. Sfruttare il potenziale vuol dire dilatare i confini d’un singolo corpo testuale verso possibilità latenti nella sua stessa costituzione linguistica.
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[1] Vedi Jean Lescure, Piccola storia dell’OpLePo, in Ruggero Campagnoli – Yves Hersant, a cura di, op. cit., pp. 28-41.
[2] Raymond Queneau, Odile (Paris, Gallimard, 1937), trad. it. di Grazia Cherchi, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 113.
[3] Jean Lescure, op. cit., p. 35.
[4] Peter Newmark distingue la traduzione semantica, che cerca di riprodurre «l’esatto significato contestuale dell’autore», dalla traduzione comunicativa, che cerca di riprodurre «l’effetto» che l’originale crea nel lettore della lingua di partenza (Cfr. Peter Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano, Garzanti, 1988, p. 51). L’arditezza linguistica dei giochi oulipiani presuppone sempre una traduzione comunicativa, come rileva Umberto Eco a proposito di Queneau: la fedeltà nel tradurre «un libro del genere […] non voleva dire essere letterali […]. Fedeltà significava capire le regole del gioco, rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse» (Umberto Eco, Introduzione alla traduzione di Raymond Queneau, Esercizi di stile, Torino, Einaudi, 1983, p. XVII).
[5] Nel 1990 nasce l’equivalente italiano dell’OuLiPo, l’Opificio di Letteratura Potenziale, fondato da Ruggero Campagnoli, Domenico D’Oria e Lello Aragona. Sulle esperienze letterarie che contribuiscono a questa epifania, legate all’attività de «Il Caffè», cfr. Paolo Albani, Accademici informi, patafisici e oulipisti italiani, in Brunella Eruli, a cura di, op.cit., pp. 125-44. Sulle linee teoriche dell’OpLePo cfr. invece Ruggero Campagnoli, Dall’OuLiPo all’OpLePo: teoria e pratica, id., pp. 159-163.
[6] «Potentielle: la parola va intesa in diverse accezioni…» (Raymond Queneau, L’opificio di letteratura potenziale, op. cit., p. 56)
[7] Cit. da Brunella Eruli, Introduzione ad Attenzione al potenziale!, op. cit., p. 5.
[8] François Le Lionnais*, Il secondo manifesto*, op. cit., p. 25.
[9] Il collegio di ‘Patafisica e l’OpLePo, in Ruggero Campagnoli – Yves Hersant, a cura di, op. cit., p. 43.
[10] ibid.
[11] Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 14.