Il tour de force matematico che implicano questi esercizi “potenziali” rappresenta solo l’estrema punta parossistica di una linea di forza letteraria bimillenaria, spesso sotterranea o privata o emarginata dal pantheon delle civiltà culturali che si sono succedute nel corso dei secoli. Una intermittente pulsione combinatoria sottostà infatti alle acrobazie formali di quel manipolo di sperimentatori che in tutte le epoche pongono la produzione letteraria sotto il segno dell’artificio e del gioco. Naturalmente ogni attività poetica ricorre a degli artifici istituzionalizzati: il verso, la rima, le forme e i generi letterari sono restrizioni che garantiscono effetti prosodici e dispositivi atti a sorreggere ed amplificare la libertà concessa al contenuto. Quando il rapporto fra costrizione e libertà stabilito dalla regola si sposta radicalmente verso il primo termine, cresce in proporzione la valenza ludica dell’atto poetico. Il gioco dell’artificiosità eccessiva è caratterizzato per Giovanni Pozzi da «un modo diverso di rappresentare il senso cui sono costrette nell’artificio l’una o l’altra delle unità che formano la lingua; e perciò consiste essenzialmente nella nascita di un altro modo di significare»[1].
A Pozzi dispiace l’uso sia del termine «gioco» che di quello «artificio» nella descrizione di queste pratiche letterarie, ma vi si adegua per mancanza di alternative nomenclatorie.
Fra gioco e poesia c’è una area comune che risponde indietro a sorgenti comuni e in avanti a finalità comuni; ma troppe proprietà essenziali li dividono: l’agonismo, l’ambizione del trionfo, l’abdicazione della volontà in un’attesa passiva e ansiosa della realtà legata all’azzardo, il gusto d’una vertigine transitoria connessa col pericolo, la ricerca del travestimento e dello scambio dei ruoli.[2]
Si fatica in prima istanza a realizzare a quale dei due ambiti si riferisca con questo elenco di attributi. Segno che le differenze sono più sfumate di quanto ci voglia lasciare intendere l’autore. Infatti gli oulipiani si identificheranno volentieri con l’etichetta di scriptor ludens. Ma per qualificare queste pratiche letterarie tramite la nozione di gioco è necessario mettere fra parentesi ogni concezione dell’opera d’arte che renda tautologica la nostra affermazione: decadrebbero quindi tutte le speculazioni di carattere estetico che identificano nel gioco stesso l’impronta costitutiva di ogni manifestazione artistica, poiché il gioco combinatorio non può qualificarsi come tale se non sullo sfondo del non-gioco delle altre differenti concrezioni letterarie.
Per fortuna esiste una scissione interna alla nozione di gioco che ci permette di stabilire il “differenziale” ludico delle nostre pratiche: quella registrata nella lingua inglese tra «play» e «game». Il termine «play» restituisce infatti soltanto quella parte della nozione di «gioco» legata a pratiche informali, a regole improvvisate ed empiriche. La controparte è restituita da «game», che indica un gioco altamente strutturato, con regole formali inderogabili: il gioco combinatorio rappresenta l’estrema frontiera del «game» letterario, poiché manipola indiscriminatamente gli elementi del linguaggio senza definire delle “zone franche”; l’ombrello delle regole copre tutti gli elementi a disposizione, compreso il campo del senso, che da vincolante viene reso qui vincolato, e stretto in una morsa costrittiva che lo restringe ai margini del testo.
Lo specifico dei moduli che qui elencherò […] consiste nel fatto che la rappresentanza del senso è dislocata fino alla soglia estrema, oltre la quale ogni sua capacità svanirebbe. Quei moduli sono vicini a non poter rappresentare più null’altro che se stessi. Sono sull’orlo del precipizio, oltre il quale l’essere linguistico verrebbe annullato perché i suoni, i grafi, i legami, gli intrecci non agirebbero più secondo una dinamica linguistica.[3]
Il risultato esteriore di quest’operazione di strangolamento del senso sembra suggerire a Pozzi un’interpretazione che adombri un possibile senso di queste pratiche, estraneo al puro divertissement della vertigine enigmistica:
… queste figure, per quanto siano bizzarre, artificiose e contorte, rappresentano tuttavia quasi in una sintesi schematica le qualità più specifiche del discorso che chiamiamo poetico e portano in sé una semiosi elementare e primigenia che si erge a suo simbolo e ne rappresenta quasi il sublimato o l’estratto.[4]
La «nascita di un altro modo di significare» avrebbe quindi senso nell’effetto collaterale di rinviare ad un primordiale “brodo linguistico” nella quale costituzione limacciosa l’autore combinatorio ed il suo lettore sarebbero investiti dalle vibrazioni d’una balbettante germinazione del senso. Ciò che il fruitore metterebbe fra parentesi è la direzione del processo: una regressione del senso verrebbe resa equivalente al suo stato di nascita, quasi rousseauianamente intento alla costituzione di un “contratto linguistico” che l’opera combinatoria assale e mette in crisi. Pozzi coglie probabilmente nel segno, poiché tale balbettamento epifanico del senso si ritrova spesso e viene altresì tematizzato in composizioni oulipiane, come la “poesia per balbuziente” di Jean Lescure, che porta come esergo una frase latina: «Te tero, Roma, manu nuda, Date tela. Latete»[5]; oppure in Apprendre a bredouiller di Perec, testo esente da regole combinatorie, ma esso stesso regola informale per conseguire quell’arduo effetto di semiosi primigenia[6].
Per Pozzi la pratica dell’artificio letterario si nutre della tensione tra la decomposizione di uno schema acquisito e la successiva ricomposizione in un altro schema. Ciò che non considera è la differente origine di questi due movimenti: gli schemi su cui si interviene sono codificati in stretto rapporto alle esigenze della comunicazione letteraria, mentre gli schemi sostitutivi sono originati solo dalle virtù combinatorie del linguaggio, rappresentano un’esplosione delle potenzialità interne al codice linguistico, dal valore autoreferenziale sconosciuto agli schemi originali. E’ questo che differenzia probabilmente la semiosi combinatoria da quella poetica tout-court di cui per Pozzi rappresenta il sublimato: le radici della combinatoria non affondano in nessun suolo, ma emergono aeree in continuità con le fronzute ramificazioni della codificazione linguistica e di quella letteraria.
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[1] Giovanni Pozzi, op. cit., p. 8.
[2] id. ., p. 6.
[3] id. ., p. 9.
[4] ibid.
[5] Cit. da Domenico D’Oria, Lipogrammi: Disparizioni/Apparizioni, in Brunella Eruli, a cura di, op. cit., p. 77.
[6] Cfr. Georges Perec, Apprendre a bredouiller, id. ., pp. 59-69.