Considerando l’insieme delle pratiche letterarie fin qui esaminate alla luce del concetto mobile di combinatoria, ci si può interrogare sul senso possibile di questo microscopico brulicare linguistico che avviluppa il continente “nobile” della letteratura. Nella maggior parte dei casi ciò significa interrogarsi sul senso della privazione del senso che questi procedimenti perpetrano con la regolamentazione ossessiva del piano formale; ma seguendo questa direzione d’indagine essi si costituirebbero inevitabilmente come sfondo d’ogni figura praticabile del linguaggio sensato, luogo delle definizioni negative del senso, di cui in definitiva riaffermerebbero l’ineludibilità.
Non è quindi sotto il discrimine del senso linguistico che si rivelerà la loro identità profonda, bensì nel loro carattere di testimonianza dell’infinita manipolabilità degli elementi costitutivi del linguaggio: è un senso di totale costruttività degli oggetti della letteratura che essi tentano costantemente di comunicare, con una inesausta azione corrosiva delle monumentali concezioni romantiche e decadenti dei superiori piani letterari. Il potenziale letterario manifesta il senso d’una corruttibilità del corpo letterario che gli oulipiani si compiacciono di accelerare: è ad una letteratura-ecosistema che essi dichiarano la loro appartenenza, una letteratura che non rispetta i suoi prodotti, accomunati tutti dall’identico destino d’una più o meno rapida decomposizione in elementi primi. Discutere sull’effettivo valore “artistico” dei giochi microcombinatori non ha più senso nello spazio letterario che essi disegnano: ciò che conta è la loro attualità, nel duplice senso dell’essere in atto (espressione del farsi continuo della letteratura), e dell’essere odierni (poter disporre hic et nunc del materiale fin qui accumulato dalla letteratura). In qualche modo l’attualità dell’operazione microcombinatoria riscatta lo squilibrio di senso riscontrabile tra i suoi singoli prodotti e le opere letterarie “normali”, deponendo un surplus di senso, un’indelebile impronta teorica negli strati profondi delle proprie meccaniche compositive.
Non è però corretto affermare che essa misconosca ogni indice di valore letterario: quando essa manipola di preferenza corpi testuali di letteratura “alta” non lo fa solo perché il potenziale metamorfico dei testi risulta più evidente scoprendolo in opere universalmente note ed apprezzate; è perché nella sua concezione esclusivamente produttiva la microcombinatoria non ha la possibilità di esprimere giudizi di valore letterario, se non nei criteri di scelta dei testi che utilizza per il suo “scempio” decostruttivo: l’opera d’arte va così celebrata con l’onore della disgregazione. La suggestione di questo postulato oulipiano appare così forte da riuscire a distrarre persino Calvino dal suo usuale arsenale immaginativo: se ne può leggere agevolmente l’impronta in un suo lavoro insolitamente truculento, La decapitazione dei capi, che svolge in quattro sezioni diseguali il pathos narrativo dello smembramento onorifico, in parte derivato anche dallo sviluppo della tematica prediletta del dimidiamento[1].
La decostruibilità della letteratura-ecosistema non deve essere però confusa con le pratiche decostruttive inerenti ad un’apertura illimitata delle possibilità interpretative: la microcombinatoria non ha nessuna valenza ermeneutica, non ha a che fare con alcun valore aggiunto dei testi, ciò che decostruisce è la sostanza stessa della letteratura, ovvero quell’universo quasi fisico degli oggetti di linguaggio, un cosmo di secondo grado dove linguaggio e letteratura risultano in definitiva sinonimi. La letteratura microcombinatoria si astiene dall’indicare le coordinate spaziali di questa ontologia parallela, perché semplicemente nasce e si muove all’interno di essa, e ivi lavora con tutto ciò che le viene messo a disposizione. Del resto la ricerca di natura teorica sull’oggettività della letteratura è luogo tra i più frequentati della cultura del novecento; ad esempio, è proprio la restituzione di tale carattere oggettuale che per Michel Foucault costituisce il fondamento insieme della concezione del linguaggio e della letteratura contemporanea:
Lungo l’intero arco del secolo XIX e fino a noi ancora – da Hölderlin a Mallarmé a Antonin Artaud -, la letteratura è esistita nella sua autonomia, si è staccata da ogni altro linguaggio attraverso un taglio profondo soltanto costituendo una specie di “controdiscorso”, e risalendo in tal guisa dalla funzione rappresentativa o significante del linguaggio a quel suo esistere grezzo, obliato a partire dal XVI secolo […]. Nell’età moderna la letteratura è ciò che compensa (non ciò che conferma) il funzionamento significativo del linguaggio.[2]
Il linguaggio taglia i ponti con la referenza e ridiviene oggetto, ma non più su un piano di correaltà con gli oggetti del mondo fisico, come già avveniva prima della secentesca indagine sui meccanismi della significatività: viene dislocato su un piano alternativo di realtà, «il linguaggio si ripiega su di sé, acquista uno spessore che è suo, sviluppa una storia, determinate leggi e un’obbiettività che appartengono solo ad esso»[3].
Sul coté produttivo non mancano certo le officine che recepiscono questo carattere della letteratura, irraggiandolo nelle sperimentazioni formali più disparate; ciò che rende peculiare la direzione combinatoria in questo ambito è che l’apparente eccesso di artificiosità dei suoi prodotti (nei confronti sia della letteratura non sperimentale che di altre ricerche formali) è leggibile all’opposto come estrema naturalità di movimento all’interno dell’universo altro del linguaggio, senza alcuna ricerca di mediazione con le leggi fisiche del reale e della sua rappresentazione; l’uso della combinatoria presuppone l’assoluta preminenza delle leggi “a statuto speciale” che governano le possibilità combinatorie del materiale manipolato.
D’altra parte la metafora ecologica che proponiamo ha il merito aggiuntivo di restituire un’identità biologica alla letteratura, salvaguardandone il carattere vitale proprio a fronte di operazioni iperformalistiche che sembrerebbero negarlo. C’è nel progetto oulipiano (l’unica forma microcombinatoria che si presenta appunto come progetto) una componente fondamentale che conduce ad un’etica del riciclaggio dei materiali letterari, che tende ad identificare la vita letteraria di un’opera nella restituzione di una funzionalità diversa ai suoi materiali d’origine; ma ad essa va integrata una seconda componente “biologizzante”: il fine dichiarato della ricerca di nuove strutture letterarie agisce come pulsione al concepimento, caricando ogni nuova produzione di un valore epifanico che si compiace del ripopolamento d’una fauna strutturale ormai agonizzante.
Non manca in questo quadro neanche il riconoscimento di una legge di selezione naturale, una sommatoria di criteri che indichi su una determinata scala temporale la possibile vitalità delle strutture letterarie che gli oulipiani producono in quantità; la loro condotta a questo proposito è a prima vista sconcertante, laddove non si ritenga sufficiente il puro valore ludico delle operazioni: ben coscienti dell’improbabilità delle strutture che propongono, essi intraprendono comunque una rincorsa all’artificiosità eccessiva, alla regolamentazione asfittica, al procedimento acrobatico il cui solo riempimento lo svuota di ogni funzionalità successiva. Se il fine dichiarato è quello di riempire la faretra dello scrittore duro d’ispirazione, perché l’attenzione si appunta immancabilmente su strutture “usa e getta” inutilizzabili, se non dal loro primo fattore a mo’ di dimostrazione della loro praticabilità? A questo problema si può indicare una soluzione rimandando indietro alle fondamenta teoriche dell’OuLiPo, importate dalla ‘Patafisica di Jarry, la «scienza delle soluzioni immaginarie» il cui oggetto d’indagine sono i fenomeni che non si producono che un’unica volta. Queneau riversa questo intento all’ordine del giorno della ricerca oulipiana, non prima di aver progettato in gioventù una Enciclopedia delle scienze inesatte che raccogliesse «i “fous littéraires”, gli autori “eterocliti”, considerati matti dalla cultura ufficiale: creatori di sistemi filosofici al di fuori d’ogni scuola, di modelli cosmologici fuori da ogni logica e di universi poetici fuori da ogni classificazione stilistica»[4].
Si capisce così come lo sforzo oulipiano si coaguli intorno ad un interesse quasi “etologico” per quelle forme che non hanno diritto di cittadinanza né possibilità di sopravvivenza, e che rimarrebbero neglette nel limbo della letteratura se qualcuno non le ponesse in atto. La pulsione al concepimento si applica così ad un’estetica dello scarto, che si fa etica della sopravvivenza dell’improbabilità in un mondo irresistibilmente orientato nella direzione opposta dalla freccia inesorabile dell’entropia.
- - - - - -
[1] Cfr. La decapitazione dei capi (1969), RR III 242-56.
[2] Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1996, p. 58.
[3] id. , p. 320.
[4] Italo Calvino, La filosofia di Raymond Queneau (1981), S 1423.