Il romanzo d’esordio di Perec, Les Choses (1965), fu immediatamente celebrato come esemplare saggio di critica alla civiltà dei consumi, reputazione che gli valse il Prix Renaudot, e che definì la sua prima attenzione «sociologica» in termini teorici non eccessivamente originali:

Le cose è la storia d’una coppia che viene a poco a poco inghiottita dagli oggetti che la circondano, elettrodomestici o riproduzioni di quadri famosi, dalla pubblicità, dalle mode, dai linguaggi del mondo merceologico. Libro in cui trionfa l’enumerazione, il catalogo, la cronaca dell’effimero percorsi da una impassibile ironia…[1]

Nella stessa direzione procedono le ironiche recensioni agli oggetti di culto pubblicate sulla rivista Arts-Loisirs nei due anni successivi, serie intitolata complessivamente L’esprit des choses [2]. L’interesse per gli oggetti e le dinamiche della loro enumerazione e descrizione vedono in seguito un’evoluzione personale, un’intensificazione dello sguardo applicata a classi di oggetti ed azioni sempre più incassate nelle maglie del quotidiano:

La mia «sociologia» della quotidianità non è un’analisi ma soltanto un tentativo di descrizione e, più precisamente, descrizione di ciò che non si guarda mai perché vi si è, o si crede di esservi, troppo abituati e per il quale non esiste abitualmente discorso: per esempio, enumerazione dei veicoli che passano all’incrocio di Mabillon, o dei gesti che fa un autista quando lascia la sua automobile, o delle diverse maniere in cui i passanti tengono il giornale che hanno appena comprato. Si tratta di un decondizionamento: tentare di cogliere non ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma ciò che è al di sotto, l’infraordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità.[3]

L’eccessiva visibilità di questi oggetti si rovescia in invisibilità: «eppure ci descrivono, nonostante noi crediamo di poterci esimere dal descriverli»[4]. La salvaguardia messa in opera da Perec di questi bistrattati ma decisivi ambiti della realtà confonde però anche qui i confini che delimitano la posizione teorica dalla reazione nevrotica al senso di vuoto incombente:

Cominciai ad avere paura di dimenticare, come se non fossi più in grado di trattenere nulla della vita che se ne andava, a meno di non annotare tutto. Ogni sera, scrupolosamente, con coscienza maniacale, mi disposi a tenere una sorta di diario: era tutto il contrario di un diario intimo: vi registravo solo ciò che mi era capitato di “oggettivo” […]. Il panico di perdere le mie tracce si accompagnò al furore di conservare e classificare.[5]

La linea «sociologica» di Perec si risolve progressivamente in una direzione «descrittiva», che porta avanti parallelamente all’ansia di conservazione degli eventi e degli oggetti una ricerca sulle modalità in cui si attua questa salvaguardia. Le condotte testuali preferite dall’ultimo Perec sono quelle dell’affiancamento di narrazione e descrizione, come avviene in ogni capitolo di La vita istruzioni per l’uso, ma soprattutto quelle che indagano dall’interno i molteplici paradigmi della descrizione: nascono così esercizi di stile descrittivo che moltiplicano la ricerca su piani esterni, come Note riguardanti gli oggetti che si trovano sulla mia scrivania (1976)[6] o Still Life-Style Leaf (1981, «un testo che è insieme una descrizione e una descrizione della descrizione»[7]).

Sandra Cavicchioli individua tre correnti nelle descrizioni perecchiane: quella autobiografica riportabile alla sua «fobia del dimenticare», quella fenomenologica che accoglie gli oggetti fuori da ogni presupposto soggettivo, quella infine che noi potremmo chiamare epistemologica, che si sofferma sulle possibilità di ordinare il materiale osservato attraverso i criteri dell’enumerazione e della classificazione. La distinzione tra le prime due correnti è in qualche modo arbitraria, poiché anche il semplice lavoro immediato dello sguardo porta Perec a soffermarsi sulle valenze personali della compresenza degli oggetti: è la sua scrivania che ha davanti, è uno spazio fortementente marcato dalla sua presenza che gli si offre allo sguardo. In realtà la sua descrizione è eminentemente anti-fenomenologica, per il rilievo personale che ne costituisce sempre il rovescio, per la sua ibridazione con riflessioni e quesiti di natura eterogenea, ma soprattutto per le connotazioni fortemente rousseliane: un’iperdescrizione che derealizza gli oggetti e gli eventi illuminati, ed un costante lavoro di narrativizzazione della descrizione.

Già in W ou le souvenir d’enfance la minuzia descrittiva si applicava su piccole immagini, sulle fotografie d’infanzia dalle quali estraeva una storia, secondo modalità tipiche del Roussel di La vue. In Espèces d’espaces la descrizione di un quadro, il San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina, avviene secondo le esatte dinamiche rousseliane, per dilatazione narrativa dei minuti particolari seguendo «il percorso di uno sguardo che esplora lo spazio in quanto tale. Questo viene suddiviso in zone e su ognuna di queste si concentra un paragrafo […]. Perec, specialmente nel secondo paragrafo, interpreta il quadro come trascrizione di un’azione, riconoscendone dunque la capacità di recare inscritto, nelle sue forme statiche, un programma narrativo»[8]. Del resto, questo brano è compreso in un capitolo dedicato alla «conquête de l’espace», in cui figura anche un testo sulla “roulotte” con cui Roussel girava il mondo, che «permette di rendere itinerante la casa, spazio fisso e radicato per eccellenza»[9].

L’iperdescrizione e la dilatazione narrativa d’una immagine sono di nuovo congiunte in La vita istruzioni per l’uso, ma soprattutto nel racconto che ne discende Storia di un quadro (1979), dove «si parla di un quadro che rappresenta una collezione di quadri e ogni quadro è un’allusione a un capitolo del libro»[10].

Ma sono soprattutto i modi d’organizzazione del descritto che focalizzano la sua attenzione. Naturalmente le procedure di enumerazione hanno anch’esse una caratterizzazione ossessiva:

L’enumerazione non è, qui, una semplice ripetizione automatica ma la sedimentazione forzata di ricordi marginali, tratti in salvo in extremis, sottoposta all’assemblaggio della contrainte, si avvicina cautamente al recupero della significatività biografica dei ricordi stessi.[11]

Ma l’applicazione della tecnica enumerativa sugli oggetti dell’infraordinario si rivela particolarmente efficace anche dal punto di vista stilistico, poiché «il distacco impersonale proprio della elencazione mantiene agli eventi dell’ordinario il loro attributo di non rilevanza»[12], ne preserva e circoscrive la principale peculiarità.

Ragionare in termini combinatori aiuterà probabilmente a capire meglio le implicazioni di quest’ansia descrittiva. Nell’enumerazione, infatti, ciò che risulta dalle sequenze descrittive rappresenta il limite estremo della combinabilità di elementi eterogenei, dove l’unico attributo comune, il solo criterio classificatorio è la compresenza in un luogo: la memoria dell’autore nelle descrizioni di oggetti, luoghi, eventi in absentia, come ad esempio i ricordi onirici di La boutique obscure (1973), o i testi raccolti in Je me souviens (1978); lo spazio che circonda l’autore nelle descrizioni “fenomenologiche” compiute in praesentia.

In entrambi i casi la descrizione perecchiana appare come l’affrancamento dell’enumerazione dalla schiavitù della classificazione; lo spazio che accoglie gli oggetti diviene protagonista in quanto unico garante dell’ordine del mondo, unica restrizione posta dall’autore al dispiegamento incontrollato del caos. L’interesse per l’infraordinario fa così da contrappeso alla regolamentazione eccessiva delle altre opere perecchiane: è indagata la condizione di semplice presenza delle cose, valore positivo in assoluto per Perec, qui isolato e analizzato per se stesso. La pura presenza nello spazio è quindi oggetto d’indagine complementare e speculare alla presenza appena mancata dei libri regolati dalla reimplicazione combinatoria del motivo dell’assenza.

Si diceva precedentemente che Perec, al contrario di Calvino, non ricerca precipuamente la molteplicità delle linee discorsive, ma combina incessantemente le sue figure nella speranza di trarne finalmente un disegno leggibile, il disegno. E’ questa la ragione che porta Perec a privilegiare il criterio dell’enumerazione (libero, definitivo), su quello della classificazione (arbitrario, non esaustivo) ogni volta che si crea lo spazio di un loro scontro. L’apologia dell’enumerazione si fa largo molto spesso, fino alla sua elevazione ad arte:

La scrittura contemporanea, salvo qualche rara eccezione (Butor), ha dimenticato l’arte di enumerare: le liste di Rabelais, l’enumerazione linneiana dei pesci in Ventimila leghe sotto i mari, l’elenco dei geografi che hanno esplorato l’Australia nei Figli del capitano Grant…[13]

La classificazione, l’organizzazione definitiva dei materiali è destinata invece a rivelarsi utopica, e il resoconto di questa reiterata impasse è fornito da Perec in Pensare/Classificare (1982), testo-elenco in cui la frammentazione originaria delle idee viene conservata nella disposizione in discorso, ed esaltata dalla sua argomentazione multiprospettica nei singoli testi:

Ciò che affiorava era tutto dalla parte del vago, del fluttuante, del fugace, dell’incompiuto: alla fine, ho deliberatamente deciso di conservare a questi frammenti informi il loro carattere esitante e perplesso, rinunciando a fingere di organizzarli in un qualcosa che avrebbe avuto, con pieno diritto, l’apparenza (e la seduzione) di un articolo, con un inizio, un centro, una fine.[14]

Perec rifiuta qui il meccanismo di dilatazione semantica delle tessere di discorso individuate, preferendo mantenerne i caratteri sintetici e discreti originali. Negando ogni forma di disposizione logica dei materiali, riempie lo spazio classificatorio liberatosi con una contrainte arbitraria, una fittizia associazione dei singoli testi ad una permutazione della serie alfabetica, che rispetta l’ordine di apparizione delle lettere dell’alfabeto nel racconto di Calvino In una rete di linee che s’allacciano (in traduzione francese), il settimo di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Perec è rassicurato dall’arbitrarietà dell’ordine alfabetico, «inespressivo, dunque neutro»[15], e si lamenta dell’uso gerarchico che quest’ordine del tutto casuale talvolta assume: è ancora una valorizzazione dell’enumerazione pura, immediata[16]. Così nel testo intitolato Le ineffabili gioie dell’enumerazione:

In ogni enumerazione ci sono due tentazioni contraddittorie: la prima è quella di censire tutto, la seconda di dimenticare comunque qualcosa; la prima vorrebbe chiudere definitivamente la questione, la seconda lasciarla aperta; tra l’esaustivo e l’incompiuto, l’enumerazione mi sembra che sia, prima di ogni pensiero (e prima di ogni classificazione), il segno indiscutibile di questo bisogno di nominare e riunire, senza il quale il mondo (“la vita”) rimarrebbe per tutti noi privo di “storia”.[17]

L’enumerazione è il principio d’ordine privilegiato da Perec non solo perché anteriore alla classificazione, ma soprattutto in ragione della fallibilità costitutiva di quest’ultima, costantemente presa di mira in Pensare/Classificare, ed evidenziata nella sua ineliminabile arbitrarietà: «E’ talmente forte la tentazione di distribuire il mondo intero secondo un unico codice […] Purtroppo non funziona, non ha neppure mai iniziato a funzionare, non funzionerà mai»[18]. Come nei tentativi macrocombinatori mostrati, la struttura ad albero della classificazione tassonomica non può escludere un differente ordinamento trasversale, davanti al quale crolla nella sua pretesa di universalità.

L’enumerazione sta alla classificazione come il progetto di Bartlebooth sta al caos circostante: è definizione di una linea riconoscibile all’interno dell’inestricabile reticolo delle linee tracciabili tra gli oggetti del mondo. Un testo precedente a Pensare/Classificare già conteneva i germi di una timida critica al principio di classificazione, del resto ampiamente utilizzato da Perec nelle sue opere. In Brevi note sull’arte e il modo di sistemare i propri libri (1978) l’analisi dei metodi classificatori è condotta sul filo di una analogia rintracciabile tra la combinatoria e la biblioteca:

Ogni biblioteca risponde a una duplice esigenza, che spesso è anche una duplice mania: quella di conservare alcune cose (dei libri) e quella di sistemarle in un certo modo.[19]

I superiori livelli dispositivi della combinatoria presentano così gli stessi caratteri di una biblioteca: in luogo della produzione di nuovi materiali, la combinatoria dispositiva produce solamente nuovi procedimenti di scelta, raccolta e combinazione di materiali esistenti, di cellule discorsive già circoscritte. Sui criteri di organizzazione d’una biblioteca possono così essere applicate, in virtù di questa analogia, le stesse procedure combinatorie che governano la scrittura: Perec riporta il progetto di un suo amico di arrestare la sua biblioteca a 361 opere, numero arbitrario che manifesta la stessa esigenza di autocostrizione che muove Bartlebooth a costruire un ordine dall’assenza totale di fondamenti, assumendo un ordine qualunque, in ragione della sua unica funzione di opporsi al disordine di partenza.

Ma l’insidia dell’impossibilità d’una classificazione definitiva mina a più riprese ogni progetto di ordinamento anti-entropico d’una biblioteca, così come di un testo[20]. I criteri di ordinamento organizzano il materiale ognuno secondo linee diverse, tra loro reciprocamente trasversali, ma soprattutto preesistono all’ordinatore; il testo-biblioteca non stabilisce una sua identità attraverso l’invenzione di nuovi criteri, ma nell’assunzione stessa di criteri personali di combinazione dei criteri preesistenti:

ordine alfabetico

ordine per continenti o paesi

ordine per colore

ordine in base alla data di acquisto

ordine secondo la data di pubblicazione

ordine per formati

ordine per generi

ordine seguendo i grandi periodi letterari

ordine per lingua…

Nessuno di questi ordini è in sé e per sé soddisfacente. In pratica, ogni biblioteca trova la propria sistemazione a partire dalla combinazione di tutti questi modi di classificazione: ponderazione, resistenza ai cambiamenti, desuetudine, stabilità, conferiscono a ogni biblioteca una personalità unica.[21]

Nessuna identità è data per Perec fuori da questa combinatoria di regole di combinazione preesistenti: la reazione al vuoto d’identità sottostante si realizza nella svalutazione dei contenuti profondi della nozione di soggettività, approdando ad un principio d’identificazione che individua l’irriducibilità del soggetto nel peculiare rapporto di aggregazione e combinazione di contenuti esterni in esso realizzato. Ecco perché i procedimenti combinatori sono talvolta presenti nelle opere di Perec senza alcuna funzione narrativa o strutturale: le regole di combinazione sono i segni d’un’identità, sono figure della costituzione combinatoria di ogni soggetto; ma sono in particolare i segni del soggetto Perec, una firma che rinvia alla sua peculiare autocostruzione, all’assunzione dei procedimenti combinatori come rete di salvataggio nella sfida instaurata contro il vuoto sottostante.

Naturalmente neanche Perec sfugge all’ambiguità fondamentale che muove ogni sfida all’orrore del vuoto: la pressione che spinge in avanti il tentativo di riempimento d’una lacuna è alimentata con identica intensità, ma con verso opposto, dalla fascinazione della perdita del sé, dalla vertigine dell’inaccessibile:

Come i borgesiani bibliotecari di Babele alla ricerca del libro che darà loro la chiave di tutti gli altri, anche noi oscilliamo fra l’illusione della compiutezza e la vertigine dell’inafferrabile. In nome della compiutezza, vogliamo credere che esista un unico ordine che ci permetterebbe di accedere di colpo al sapere; in nome dell’inafferrabile, vogliamo pensare che l’ordine e il disordine siano due termini che si equivalgono nel designare il caso.[22]

Se in Perec questa casualità ultima dell’ordine suona come una ricerca di compensazione, una proiezione universale della sua condizione sradicata, l’identica affermazione di Calvino vuole trascendere da ogni riferimento personale per definire una via intersoggettiva alla ricerca d’una sintesi letteraria della realtà:

Questa letteratura del labirinto gnoseologico-culturale […], ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale […]; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo.[23]

Indice
La riscrittura combinatoria
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[1] Italo Calvino, Ricordo di Georges Perec, op. cit., S 1389.

[2] Segnaliamo, a titolo di esempio (interessato), nelle pieghe di una improbabile Teoria dei gadget l’esistenza di alcuni di essi che «sono di natura combinatoria: è stato normale pensare un certo giorno al cavatappi apribottiglie, al portasigarette accendino, alle forbicine limaunghie; è più sofisticato arrivare all’accendino apribottiglie, alla penna calzascarpe, al tagliasigari carillon, ma il principio è esattamente lo stesso». Abbozzo di una teoria dei gadget (Esquisse d’une théorie des gadgets, «Arts-Loisirs», n° 65, 21-27 dic. 1966, p. 21), trad. it. di Andrea Borsari, «Riga», n° 4, p. 35.

[3] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, op. cit., p. 91.

[4] Leggere: schizzo socio-psicologico (1976), in Pensare / Classificare, op. cit., p. 97.

[5] I luoghi di un’astuzia, op. cit., pp. 61-62.

[6] In Pensare/Classificare, op. cit., pp. 17-22.

[7] A proposito della descrizione (A propos de la description (1981), in L’infra-ordinaire, Paris, Seuil, 1989, pp. 107-119), trad. it. di Luigi Grazioli, «Riga», n° 4, p. 72.

[8] Sandra Cavicchioli, op, cit., pp. 177-79.

[9] id., p. 177.

[10] Conversazione con Gabriel Simony, (Entretien avec Gabriel Simony, «Jungle», n° 6, février 1983), trad. it. di Elio Grazioli, «Riga», n° 4, p. 113.

[11] Eleonora Bertacchini, op. cit., p. 156.

[12] ibid.

[13] Note riguardanti gli oggetti che si trovano sulla mia scrivania (1976), in Pensare/Classificare, op. cit., p. 21.

[14] Pensare/Classificare, op. cit., p. 136.

[15] id., p. 143.

[16] Perec usa come sinonimi «enumerazione» ed «elencazione»: ciò che lo attrae dell’enumerazione è infatti la sua serialità antigerarchica, liberata dalla graduatoria che la serie dei numeri stabilisce: non ci sono numeri nelle enumerazioni perecchiane.

[17] In Pensare/Classificare, op. cit., p. 148.

[18] id. p. 138.

[19] Brevi note sull’arte e il modo di sistemare i propri libri, in Pensare/Classificare, op. cit., p. 27.

[20] «Una biblioteca non in ordine crea disordine: si tratta dell’esempio che mi è stato presentato per farmi capire il concetto dell’entropia e più volte l’ho verificato in via sperimentale» (id., p. 32-33).

[21] id., pp. 33-34 (mio il corsivo).

[22] id., p. 36.

[23] Italo Calvino, La sfida al labirinto (1962), S 122.