Riscrivere significa fin dall’inizio ricombinare. La riscrittura è dunque la possibilità di scomporre e di ricomporre a piacere non gli elementi del linguaggio di cui si sostanzia la letteratura (operazione oulipiana per eccellenza), ma sequenze già date di quegli elementi, configurazioni originali dotate di una forte identità, estrapolate dal contesto originario ed inserite in nuovi meccanismi narrativi per essere combinate con gli elementi cari al riscrittore: la riscrittura preleva la totalità degli elementi di un certo ordine da un ipotesto (tutta la fabula: travestimento; il nucleo peculiare dello stile: parodia), variando quelli degli altri ordini. La citazione preleva invece solo una parte ristretta dall’ipotesto, prestandosi così alle più varie ricombinazioni.
… la mia ambizione di scrittore sarebbe quella di percorrere tutta la letteratura del mio tempo senza mai avere la sensazione di ritornare sui miei passi o di ricalcare le mie stesse tracce, e di scrivere tutto ciò che un uomo oggi può scrivere: libri grossi e libri piccoli, romanzi e poesie, drammi, libretti d’opera, romanzi gialli e romanzi d’avventura, fantascienza, feuilletons, libri per bambini…[1]
L’ambizione perecchiana esprime un’esigenza enciclopedista applicata alle forme e ai generi letterari, a differenza della combinatoria di stili in cui si risolveva narrativamente l’enciclopedismo di Queneau. Questa ricerca d’esaustione della scrittura non è pensabile da Perec che nei termini d’una sistematica riscrittura, una rielaborazione dei modelli letterari da cui trae linfa la sua volontà letteraria, legata alla reinvenzione più che alla invenzione ex-novo. La stessa esposizione delle sue ambizioni letterarie manifesta l’esigenza di riscrivere, di precisare ogni volta più compiutamente i motivi della sua ricerca, come si può osservare confrontando il passo precedente con questo, di poco più tardo:
La mia ambizione di scrittore è dunque di esplorare, in ogni caso di circoscrivere, i campi della scrittura in tutti gli ambiti in cui tale scrittura mi ha permesso di scrivere a mia volta. Questo implica un lavoro sui generi, sui codici, e sui «modelli», da cui la mia scrittura procede: un certo numero di autori (da Joyce a Hergé, da Kafka a Price, da Scève a Pierre Dac, da Sei Shônagon a Gottlieb)[2] definiscono, circoscrivono il luogo da cui scrivo; seguendo questi fili conduttori, mi sforzo di realizzare un progetto di scrittura nel quale non riscriverei mai due volte lo stesso libro, o meglio nel quale, riscrivendo ogni volta lo stesso libro, lo illuminerei ogni volta con una luce nuova.[3]
Il contenuto teorico di questo brano è raddoppiato nel suo valore di verità dalla sua contemporanea traduzione in prassi: parlando della necessità di riscrivere sta riscrivendo un precedente brano che esprimeva l’identico contenuto; ma sta anche illuminando sotto una luce diversa la stessa idea: se prima si riferiva alla totalità dello scrivibile, qui si sposta sulla totalità dello scritto.
Non è quest’ultimo fenomeno, in fin dei conti, analogo a quello della reimplicazione? In entrambi i casi l’enunciazione del senso (del contenuto) del testo viene già data composta alla sua effettiva attuazione. La differenza sta qui solamente nell’inverso movimento che dà luogo a questa combinazione: nel primo caso è lo spunto formale (il lipogramma) a proporre l’isomorfismo che genera il contenuto (il racconto di una indicibile assenza); nel secondo caso, è il contenuto (la necessità di riscrivere le stesse cose sotto sempre diversi angoli di visuale) a determinare la combinazione con la sua prassi (la riesposizione in termini diversi della stessa idea). Contenuto e forma, teoria e prassi sono combinabili in questo modo grazie a un elemento intermedio comune: nel primo caso il modulo formale della sottrazione di un elemento da un insieme, semantizzato da una parte nell’insieme delle lettere alfabetiche e dall’altra nelle più diverse modalità, fin dall’insieme iniziale dei personaggi del romanzo. Qual’è invece l’elemento comune nell’altro fenomeno? Ebbene, è semplicemente la scrittura: è il metadiscorso, lo scrivere su di un’esigenza della scrittura che permette di porre in atto tale esigenza mentre la si enuncia. Il modulo generativo de La disparition è così esso stesso metadiscorso, un discorso sopra la letteratura enunciato in un linguaggio non più sottoposto ai vincoli della codificazione linguistica, ma esclusivamente alle regole di applicazione della combinatoria.
Scrivere un libro significa dunque combinare in modo sempre diverso la compresenza dei «fili conduttori» dei modelli letterari di riferimento, in modo che la costanza dei materiali d’uso esprima ogni volta un differente progetto letterario, identificabile nell’idea guida attorno alla quale prende corpo l’organizzazione combinatoria della riscrittura. L’opera è indiscutibilmente multipla, aggregativa, venendo a disegnarsi come un gioco di parole incrociate attraverso la complessa intersecazione dei discorsi. Lo spazio letterario ineffabile, indivisibile è un paradosso, che trova appunto adeguata figurazione nel geniale cruciverba ad una sola casella (1 orizzontale: vocale; 1 verticale: consonante)[4], modello della contraddizione di ogni monadica purezza[5].
Tra i modelli letterari che più fortemente agiscono su un determinato percorso di scrittura generalmente viene trascurato proprio il più importante: le stesse opere già consegnate dall’autore alla storia della letteratura, di cui fanno più o meno dignitosamente parte integrante fin dall’atto della loro pubblicazione. Perec non ha invece pudore nell’ammettere tale dipendenza privilegiata, che esprime in abbondanza tramite la tecnica dell’autocitazione:
… credo che si tratti di legare tra loro i miei diversi libri, di fabbricare una rete in cui ogni libro incorpora uno o più elementi venuti da un libro precedente (o anche posteriore: da un libro ancora in progetto o in cantiere); questi autoriferimenti cominciano ad apparire ne La Disparition (che comincia come una traduzione senza «e» di Un uomo che dorme); si sviluppano più o meno consapevolmente in La Boutique obscure, Specie di spazi, W o il ricordo d’infanzia e sono molto più manifesti ne La vita istruzioni per l’uso che utilizza elementi provenienti da quasi tutti gli altri miei testi.[6]
La rete delle citazioni si infittisce così sensibilmente per la sua sovrapposizione ad una riconoscibile rete delle autocitazioni.
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[1] Note su ciò che cerco, op. cit., pp. 10-11.
[2] Qui Perec gioca a nascondino: nell’elenco finale delle citazioni in La vita istruzioni per l’uso, solo Joyce, Kafka e Price appaiono tra i trenta autori, serie da cui può trarsi comodamente la vera lista delle sue ascendenze letterarie fondamentali: Rabelais, Flaubert, Melville, Verne, Roussel, Queneau, Butor, Calvino.
[3] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, op. cit., p. 90.
[4] Cit. da Aldo Spinelli, Cruciverba e puzzle: una sfida a due, in Brunella Eruli, a cura di, op. cit., p. 106.
[5] Uno spunto simile chiude La vita istruzioni per l’uso: Bartlebooth muore con ancora in mano l’ultimo pezzo dell’ultimo puzzle, a forma di W, mentre l’unico spazio ancora disponibile nel puzzle quasi terminato è a forma di X.
[6] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, op. cit., p. 92.