La vita istruzioni per l’uso mette a disposizione del lettore molteplici strumenti supplementari, tra cui un inconsueto indice dei nomi, in cui convivono pacificamente il reale e il fittizio, esattamente come nelle fibre del testo la rete di riferimenti “reali” alle scienze e alle arti si sovrappone disinvoltamente al gioco della pseudo-erudizione; del resto, la stessa presenza finale di tali strumenti bibliografici mira a confondere i limiti tra finzione e documentazione, caratteristica tra le più persistenti della scrittura di Perec, che ne rende così ragione:
Il testo non è produttore di sapere, ma produttore di finzione, di finzione di sapere, di sapere-finzione o fanta sapere. Quando dico che vorrei che i miei testi fossero informati dai saperi contemporanei come i romanzi di Jules Verne lo furono dalle scienze della sua epoca, questo significa che vorrei che intervenissero nell’elaborazione delle mie finzioni non in quanto verità ma in quanto materiale, o meccanismo, dell’immaginario.[1]
L’enciclopedismo di Queneau era ancora sulle tracce di una clavis universalis che componesse in un unico quadro i singoli ambiti scientifici e le radici della finzionalità. In Perec (come in Roussel ma su un piano di coscienza ben superiore), l’opera letteraria non si fa carico della comunicazione di alcun contenuto esterno a quello della propria finzione.
Per molto tempo si crede che esprimere significhi trovare, scoprire, capire, cioè capire finalmente, essere illuminati dalla verità. Ma no: quando capita, si sa soltanto che capita; è là, si parla, si scrive, parlare è soltanto parlare, semplicemente parlare, scrivere è soltanto scrivere, tracciare delle lettere su un foglio bianco.[2]
La letteratura è contenitore di sapere solo in ragione della sua traducibilità in letteratura, della sua capacità di assumere una funzione evocativa o strutturale, della sua intima disponibilità ad essere o a produrre finzione.
Se il sapere reale non preme né vincola i confini del testo, la libera espressione della finzione può così esercitarsi fino alla tentazione inversa di una sua espansione nelle pieghe dell’esistente. Nei testi di Perec la presenza dei saperi lavora al negativo, è subordinata ad una finzionalità insinuante che lavora per estendere il suo dominio nel campo del reale, impregnarlo più di quanto non miri ad assorbirlo ed attirarlo nel suo territorio, la scrittura; in Perec è la finzione che tende a penetrare nella realtà, non il contrario: una linea tematica che ricalca quella strutturalmente inaugurata da Queneau con Icaro involato, espediente narrativo che non aveva dunque una ragion d’essere esclusivamente formale, ma faceva emergere un discorso sottostante, un significato che quella straordinaria infrazione poteva assumere nella tensione costante che si instaura tra lo scrittore e la sua finzione.
Calvino conferma che in Perec «ogni scena raffigurata è minutamente descritta, come se il mondo rappresentato e quello fuori della cornice appartenessero allo stesso livello di realtà»[3]. E’ al fenomeno pittorico del trompe-l’oeil che Perec ricorre di preferenza per descrivere l’effetto di emergenza nella realtà della finzione:
Ciò che arresta il nostro sguardo, un breve istante, è l’irruzione della finzione in un universo al quale, a causa di ciò che si potrebbe chiamare la nostra cecità quotidiana, non sappiamo più prestare attenzione. In questo senso, i trompe-l’oeil funzionano un po’ come le parole incrociate: essi pongono una domanda la cui risposta è interamente contenuta nell’enunciato che la formula […], ma che resta enigmatico fintanto che non si è operato il minuscolo slittamento di senso che la risolve nella sua evidenza imparabile.[4]
Trompe-l’oeil, finzione emergente, parole incrociate, reimplicazione[5]: Perec trova modo di combinare in un discorso unitario fenomeni tanto diversi della sua esperienza letteraria. Nell’opera dunque è rappresentata l’emarginazione della finzione, che tende a penetrare nel reale, costringendoci a prenderne una coscienza diversa. E se questa rappresentazione tendesse essa stessa a penetrare nella realtà ancora più esterna dell’autore?
Molto prima che iniziassi l’analisi, avevo cominciato a svegliarmi di notte per annotare i sogni su dei taccuini neri che tenevo sempre con me. Ero giunto con rapidità ad acquisire una tale pratica che i sogni mi venivano alla penna come già scritti, compresi i titoli. […] ho finito per ammettere che quei sogni non erano stati vissuti per essere sogni, ma sognati per essere testi, che non erano affatto la via principale che credevo, ma percorsi tortuosi che ogni volta mi allontanavano vieppiù dal riconoscimento di me stesso.[6]
E’ questo un tromp-l’oeil di secondo grado, o piuttosto il referente a cui rimandano tutte le figure che parlano nel testo di questo fenomeno? Tutto sommato, ci si sveglia alla fine per riconoscere l’illusione e ristabilire la gerarchia appena messa in discussione dalla temporanea emergenza della finzione; su questa strada Perec si mantiene ancora lontano dall’orrore finzionale dei racconti di Borges, dove il risveglio sancisce la definitiva affermazione della finzione onirica in Le rovine circolari [7], o della irreversibile «intrusione del mondo fantastico nel mondo reale»[8] di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.
La finzione si affaccia nell’opera perecchiana alle soglie della realtà da tutte le direzioni: alle dinamiche citazionistiche equi-finzionali (riprendere una finzione nelle maglie di una nuova finzione) si sovrappongono i continui ricorsi alla pseudo-bibliografia, finzione di secondo grado che simula costantemente la sua appartenenza al grado superiore della citazione reale. Che il fenomeno sia sempre della stessa natura è pronto a confermarlo Roscioni:
… una regola della pseudo-bibliografia (e della raccolta di mirabilia) esige, da Rabelais in poi, che il «falso» sia sempre mescolato al «vero» (per accentuare l’effetto di straniamento proprio dell’operazione)…[9]
Anche la massiccia presenza pseudo-bibliografica è da far risalire all’opera di Roussel che, pur non aspirando in questo campo all’assoluta originalità, ha l’effetto di catalizzare l’attenzione di Perec sul fenomeno. Se in Roussel, effettivamente, la finzione non ha bisogno di elevarsi perché essa governa già interamente il mondo della conception, la presenza disseminata di riferimenti pseudo-bibliografici è comunque talmente imponente da spingere Roscioni a soffermarsi lungamente su questi «fantasmi di libri»:
Questi titoli sconosciuti a tutte le bibliografie, queste didascalie che rimandano a opere e a autori inesistenti, ove fossero sistematicamente inventariati formerebbero il catalogo del più stipato padiglione del museo rousseliano.[10]
Che l’influenza della pseudo-bibliografia rousseliana sia determinante lo dimostra la riapplicazione giocosa di tali espedienti operata da Perec sull’interpretazione dello stesso Roussel: in Roussel et Venise Perec riporta un episodio biografico fittizio, estratto da altrettanto immaginarie fonti documentarie; una pseudo-bibliografia produce una pseudo-biografia a cui viene sovrapposto un travestimento de La morte a Venezia: Roussel sarebbe andato una sola volta a Venezia con la madre nel 1895 per comprare un libro raro, e in quella occasione si sarebbe innamorato di un certo Ascanio, sedicenne che sarebbe morto l’anno dopo. Su queste basi Perec mette su con l’aiuto di Harry Mathews una parodistica interpretazione psicanalitica che rintraccia una serie incredibile di coincidenze testuali, secondo le mappe sovrapposte di una doppia topografia; il gioco dell’eccessivo dispendio interpretativo introduce nell’esegesi la stessa, tipica incongruità del suo oggetto d’analisi, mimando al contempo la ricerca inesausta di una chiave nascosta o di una mappa segreta dell’opera, che forma tanta parte della critica rousseliana:
Il y aurait donc chez Roussel deux topographies superposées. L’une correspond au monde de ses livres et respecte généralement une géographie réelle (il existe certes des contrées et des ville imaginaires, mais les continents sont en place); l’autre est le monde secret de sa vie vénitienne.[11]
Ma anche l’incastonamento di immagini concentriche è continuamente perseguito da Perec, sulla scorta delle rousseliane Nouvelles Impressions D’Afrique, che s’intravedono chiaramente sotto la Storia di un quadro; il racconto è così «una riflessione speculare su questo mondo condannato alla ripetizione infinita dei propri modelli»[12]: forse allude ancora a Roussel, di sicuro il modello letterario a cui rimanda è quello della riflessione sulla combinazione di livelli concentrici di realtà, interesse comune a tutti i nostri autori. L’effetto di equivalenza della finzione con la realtà s’inverte qui di segno: non è più la finzione ad emergere, ma è la realtà ad essere risucchiata negli abissi concentrici della finzione.
La descrizione di spazi concentrici era del resto il principio strutturale che reggeva dichiaratamente Specie di spazi, a partire dallo spazio del testo:
La mia prima approssimazione di spazio era la pagina; dopo la pagina cominciano degli inscatolamenti a partire da un gioco di parole tra la page (pagina) e le page che in argot è il letto. Poi dal letto si passa alla camera, dalla camera all’appartamento, dall’appartamento alla casa, dalla casa alla strada […]. Voglio dire che le cose si inscatolano le une nelle altre e lo spazio, bisogna cominciare col prenderlo da un’estremità; lo spazio somiglia a una cipolla con delle sfere successive.[13]
Lo stesso procedimento dilatatorio si ritrova in un breve testo intitolato Intorno a qualche modo di usare il verbo abitare (1981), e permea di sé anche l’ultimo, incompiuto romanzo, 53 jours, in cui la prima parte si rivela essere semplicemente un manoscritto redatto da un personaggio della seconda, espediente che organizza un incredibile gioco di specchi e di incastonamenti di libri, funzionale alla risoluzione di un plot poliziesco a strati concentrici. Naturalmente l’opera è sorretta, come sempre, da una combinazione di modelli letterari, un pastiche ininterrotto che prende le mosse dalla Chartreuse stendhaliana.
Nel breve racconto Il viaggio d’inverno (1979) Perec trova il modo d’intrecciare inestricabilmente i principali moduli della sua scrittura: rinvenimento di una fondamentale lacuna, citazionismo, enciclopedismo, pseudo-bibliografismo e l’idea oulipiana dei «plagi per anticipazione» concorrono a definire l’ossessione di Vincent Degraël, un giovane professore che s’imbatte casualmente in una copia di Il viaggio d’inverno di Hugo Vernier; in questo autore sconosciuto Degraël rintraccia in prima istanza un citazionismo esasperato che copre l’intera generazione di scrittori francesi che va dai Parnassiani ai Simbolisti; l’assurdo irrompe con la verifica della data di edizione: 1864.
… questo voleva dire che Vernier aveva «messo in piazza» un verso di Mallarmé con due anni di anticipo, plagiato Verlaine dieci anni prima che le sue Ariette oubliées fossero pubblicate, scritto alla maniera di Gustave Kahn un quarto di secolo prima di lui: questo voleva dire che Lautréamont, Germain Nouveau, Rimbaud, Corbière, e non pochi altri erano soltanto i copisti d’un poeta geniale e sconosciuto, il quale, nell’unica sua opera, era riuscito a racchiudere la sostanza stessa di cui si sarebbero nutrite dopo di lui tre o quattro generazioni.[14]
Degraël passa il resto della sua vita a cercare prove della sua scoperta, che gli si dissolvono progressivamente fra le mani; è significativo che sia proprio la guerra a cancellare le tracce dell’esistenza di Vernier, e a circoscrivere per sempre lo spazio bruciante di un’assenza da cui discendono tutte le opere simboliste, come da quell’altra decisiva assenza della storia perecchiana discendono tutte le sue opere.
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[1] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner (1979), op. cit., p. 90. E Calvino precisa: «un Verne, s’intende, passato attraverso le macchinazioni minuziose e ossessive di Raymond Roussel» (Perec, La vita istruzioni per l’uso (1984), S 1396).
[2] I luoghi di una astuzia, op. cit., p. 54.
[3] I. Calvino, Perec, La vita istruzioni per l’uso, op. cit., S 1399.
[4] Questo non è un muro…, op. cit., p. 52.
[5] Anche Pensare/Classificare presenta discorsi sulla classificazione quando la stessa forma dell’enunciazione si è già pronunciata sulla sua impossibilità. La reimplicazione, in quanto implicazione reciproca di espressione e contenuto, sembra essere così il modo scritturale prediletto da Perec.
[6] I luoghi di un’astuzia, op. cit., p. 62.
[7] «Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo» (Le rovine circolari, in Finzioni, op. cit., p. 665)
[8] Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, id., p. 638.
[9] Gian Carlo Roscioni, op. cit., p. 77.
[10] Gian Carlo Roscioni, op. cit., p. 71.
[11] Harry Mathews – Georges Perec, Roussel et Venise. Esquisse d’une géographie mélancolique, «L’Arc», n° 68, 1977, p. 15.
[12] Storia di un quadro (Un cabinet d’amateur, Paris, Balland, 1979), trad. it. di Sergio Pautasso, Milano, Rizzoli, 1990, p. 29.
[13] Conversazione con Eva Pawlikowska, op. cit., p. 100.
[14] Il viaggio d’inverno (Le voyage d’hiver, in Saisons, plaquette di Nicole Vitoux, Paris, Hachette, 1979), trad. it. di Gianni Celati, «Riga», n° 4, p. 83.