L’«iper-romanzo» La Vie mode d’emploi (1978) rappresenta la summa delle linee procedurali perecchiane, e al contempo l’opera cardine della letteratura combinatoria, di cui riassume e combina quasi tutte le sfaccettature teoriche fin qui evidenziate. La ben nota ammirazione di Calvino per quest’opera lo spinge a considerarla «l’ultimo avvenimento nella storia del romanzo»[1], per i seguenti motivi:
Il disegno sterminato e insieme compiuto, la novità della resa letteraria, il compendio d’una tradizione narrativa e la summa enciclopedica di saperi che questo libro convoglia in un’immagine del mondo, il senso dell’oggi che trasmette come accumulazione di passato e come vertigine di vuoto, la compresenza continua d’ironia e d’angoscia, insomma il modo in cui il perseguimento d’un progetto strutturale e l’imponderabilità della poesia diventano una cosa sola.[2]
La «tradizione narrativa» che l’opera riassumerebbe è in realtà la stessa letteratura combinatoria che costituisce il nostro oggetto, e che lega inscindibilmente il lavoro di Perec a quello di Calvino, obbligando ad un’analisi congiunta della rete di rimandi intertestuali fra le dinamiche compositive dei due autori. Il progetto combinatorio avviluppa qui la stesura dell’opera, evidenziando nel migliore dei modi il movimento duplice della combinatoria letteraria:
1) Una combinatoria generativa, che agisce prima della stesura del discorso, condizionandolo fino al risultato estremo di produrlo: i procedimenti rousseliani sono generativi, producono testo come risultato di una restrizione. Ma anche Calvino utilizza in Se una notte d’inverno un viaggiatore «una griglia di percorsi obbligati che è la vera macchina generativa del libro, sul tipo delle allitterazioni che Raymond Roussel si proponeva come punto di partenza e punto d’arrivo delle sue operazioni romanzesche»[3]. Calvino pubblica nella Bibliothèque Oulipienne un saggio oulipo-greimassiano che spiega la tecnica utilizzata in Se una notte attraverso la successione di pseudo-quadrati semiotici: un metadiscorso che Greimas stesso introduce, segnalando che deve essere letto «avec sérenité et un soupçon de sourire»[4], e che è significativamente intitolato da Calvino Comment j’ai écrit un de mes livres.
Questa operazione combinatoria antecedente al discorso si attua in La vita istruzioni per l’uso nella costruzione di un’impalcatura tematica soggiacente ad ogni singola storia: Perec usufruisce della struttura del biquadrato latino, come già mostrato, per organizzare delle liste tematiche da combinare, che «comprendono località geografiche, date storiche, mobili, oggetti, stili, colori, cibi, animali, piante, minerali e non so quante altre»[5]. L’intersezione di occorrenze di queste liste dà luogo ad una traccia narrativa o stilistica da rispettare per ciascun capitolo.
2) Una combinatoria dispositiva, che organizza la successione delle unità discorsive preesistenti. Lo schema biquadratico associato alla figura in sezione del palazzo definisce il numero dei capitoli, mentre la loro successione è dettata dalla “mossa del cavallo”. Anche in questo caso, Perec aveva a disposizione un esempio calviniano di combinatoria dispositiva in uno schema reticolare: Le città invisibili, originate ciascuna da uno scatto informale della fantasia calviniana, sono organizzate secondo uno schema a posteriori: cinquantacinque città, incasellate nel piano individuato dai due assi della divisione in capitoli (nove, aperti e chiusi dalla cornice) e della suddivisione in categorie tematiche (undici, da “Le città e la memoria” a “Le città nascoste”)[6]. Lo schema combinatorio in cui Perec incasella le tessere narrative definisce le modalità di quella scrittura reticolare che entrambi gli autori portano avanti: per Perec il discorso (il senso) si costruisce solo dalla combinazione di unità delimitate di contenuto da smontare e rimontare alla ricerca di «quell’indicibile verso cui tende disperatamente il desiderio di scrivere»[7]. A Calvino interessa invece più la compresenza dei discorsi, la salvaguardia della molteplicità più che il reperimento di un unicum[8]. Se in Perec l’organizzazione combinatoria si cristallizza infine nell’immagine del puzzle risolto, nella combinazione decisiva che fissa la forma dell’opera, in Calvino la figura reticolare serve a sottolineare l’organizzazione di una molteplicità di percorsi all’interno dell’opera; la scrittura reticolare calviniana conduce all’ipertestualità, come mostrano le molteplici figure di questa organizzazione testuale, tra cui emerge per evidenza la «città invisibile» di Smeraldina, una Venezia reticolare:
A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e s’intersecano. Per andare da un posto a un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la linea più breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s’aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte (…). Combinando segmenti dei diversi tragitti sopraelevati o in superficie, ogni abitante si dà ogni giorno lo svago d’un nuovo itinerario per andare negli stessi luoghi.[9]
Del tutto analoga è la forma dell’ipertesto, così definita dal suo inventore, Theodor H. Nelson:
Con “ipertesto” intendo scrittura non sequenziale – testo che si dirama e consente al lettore di scegliere […]. Così come è comunemente inteso, un ipertesto è una serie di brani di testo tra cui sono definiti dei collegamenti che consentono al lettore differenti cammini.[10]
Che cos’è infatti una regola combinatoria? E’ una norma, un enunciato che stabilisce, dato un numero di elementi, quali collegamenti (link) tra di essi sono validi, pertinentizza cioè solo un determinato numero di percorsi (di path) tra questi elementi. La combinatoria generativa organizza i collegamenti tra elementi linguistici minimali (una frase, una parola, talvolta una sillaba o una lettera), su un piano del discorso antecedente a quello dell’opera finita; la combinatoria dispositiva è utilizzata da Perec per fissare in una forma definita e necessaria la sequenzialità dei brani prodotti, da Calvino per evocare ed organizzare la molteplicità di percorsi stabilibili a priori in un testo.
Anche la compenetrazione tra la combinatoria generativa e quella dispositiva, magistralmente risolta da Perec nell’utilizzo di un’unica struttura (il biquadrato latino) in cui fin dall’inizio sono interrelate le due funzioni, ha una forte impronta calviniana: ne Il castello dei destini incrociati il gioco combinatorio genera e dispone al contempo in discorso i suoi materiali d’uso. Il rapporto con l’esperimento calviniano si rafforza per l’analogo tentativo di sfruttamento narrativo d’una sequenza d’immagini, la serie dei Tarocchi (viscontei e marsigliesi) da una parte, la riproduzione dello spaccato d’uno stabile parigino (che Perec trae da un disegno di Saul Steinberg intitolato The art of living) dall’altro[11].
Di questo itinerario percorso “a quattro gambe” Perec approfondisce il collegamento con la narratività tradizionale, offrendo nella storia centrale del miliardario Bartlebooth un personaggio “combinatorio” per antonomasia, fin dal suo nome, che sintetizza «due personaggi letterari: Barnabooth il miliardario di Valery Larbaud, e Bartleby lo scrivano di Herman Melville: l’uomo che vorrebbe dare una forma al vuoto della sua vita e l’uomo che vorrebbe identificarsi col nulla»[12].
Bartlebooth, nell’impossibilità di cogliere interamente la totalità dell’esistente, sceglie, «di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo […], di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile. […] di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé»[13].
A vent’anni inizia così a concepire il suo progetto, che prevede dieci anni di iniziazione all’arte dell’acquerello, per cui non prova alcun particolare interesse né predisposizione; per vent’anni viaggerà per il mondo, dipingendo ogni quindici giorni una «marina», una veduta di un porto di mare, che spedirà subito ad un artigiano specializzato che l’incollerà su un foglio sottile e ne farà un puzzle di 750 pezzi; tornato in Francia, per vent’anni ricomporrà, nell’ordine, questi puzzle, ovviamente ancora uno ogni quindici giorni, i cui pezzi saranno reintegrati nei dipinti originari grazie ad una sostanza speciale, e rispediti nei luoghi stessi in cui sono stati dipinti, per essere immersi «in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto. Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore»[14].
La regola arbitraria della combinatoria letteraria si lega così alla vita stessa, sostituendo un ordine qualsiasi al disordine del mondo: Bartlebooth non è solo figura esemplare del procedere combinatorio, ma soprattutto ipostasi d’una decisiva meccanica psicologica perecchiana.
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[1] Perec, La vita istruzioni per l’uso (1984), S 1393.
[2] ibid.
[3] Italo Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, «Alfabeta», I, 8, dicembre 1979, p. 5. Ma poiché i dieci incipit inseriti non fanno che variare un nucleo narrativo di base, da questa diversa prospettiva è agli Exercices de style di Queneau che Calvino si richiama.
[4] Algirdas Julien Greimas, Avis au lecteur, in Italo Calvino, Comment j’ai écrit un de mes livres, «Nuova Corrente», XXXIV (1987), p. 10. L’uso del titolo rousseliano è evento quotidiano nei dintorni dell’OuLiPo: forse la migliore variazione sul tema è offerta da Marcel Bénabou con il suo Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres (Paris, Hachette, 1986).
[5] Italo Calvino, Perec, La vita istruzioni per l’uso*,* op. cit., S 1397.
[6] Cfr. lo schema costruito da Claudio Milanini, L’utopia discontinua, Milano, Garzanti, 1990, pp*.* 130-31; Pier Vicenzo Mengaldo propone invece un accostamento con lo schema metrico della sestina lirica, le cui proprietà combinatorie abbamo già evidenziato (cfr. L’arco e le pietre (1973), in La tradizione del Novecento, Feltrinelli, Milano 1980).
[7] Note su ciò che cerco, op. cit., p. 11.
[8] In Il conte di Montecristo Calvino precisa la complementarietà dei due atteggiamenti, incarnati da Dantès e Faria: «A Faria sta a cuore una pagina tra le tante, e non dispera di trovarla; a me interessa veder crescere il cumulo dei fogli scartati, delle soluzioni di cui non c’è da tener conto, che già formano una serie di pile, un muro…» (Italo Calvino, Il conte di Montecristo, op. cit., RR II 355).
[9] Le città invisibili, op.cit., RR II 433.
[10] Theodor H. Nelson, Literary machines, Swarthmore (Pa.), 1981, pp.0-2, (trad. it. cit. da George P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura, Bologna, Baskerville, 1993, p.5-6).
[11] Cfr. Alcuni pittori con cui ho lavorato… (1981), trad. it. di Andrea Borsari, «Riga», n° 4, pp. 56-61.
[12] I. Calvino, Perec, La vita istruzioni per l’uso*,* op. cit., S 1397. Notiamo en passant che anche la scena finale di Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles, citato da Perec nel libro, potrebbe aver contribuito alla nascita di Bartlebooth: vi si trova un’associazione tra il puzzle ed il motivo dell’uomo che costruisce instancabilmente solo per distruggere ciò che ha prodotto.
[13] La vita istruzioni per l’uso, op. cit., p. 128. Ma, anche qui, Perec sviluppa magistralmente un disegno già presente in Calvino, che fin dal 1960 evidenziava «quello che è sempre stato e resta il mio vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri» (Nota 1960 a I nostri antenati, Milano, Mondadori, 1991, p. 417). Ma se per Perec la restrizione si sostituisce all’identità, per Calvino essa è condizione necessaria proprio all’autocostruzione, al reperimento di «un codice personale di regole interne e di rinunce attive» (ibid.).
[14] La vita istruzioni per l’uso, op. cit., p. 129.