Sono ebreo. Per molto tempo questo non fu evidente per me; non era il riallacciarsi a una religione, a un popolo, a una storia, a una lingua, tutt’al più a una cultura […]. Era qualcosa che apparteneva a un passato di cui mi ricordavo appena, era una determinazione che mi era stata imposta dall’esterno e anche se ne avevo potuto soffrire, non sentivo la necessità di farmene carico, di rivendicarla. Di fatto era il segno di un’assenza, di una mancanza (la sparizione dei miei genitori durante la guerra) e non di un’identità […]. Questa ricerca delle mie radici, che mi ha poi condotto per tante strade che non ho ancora finito di percorrere, mi ha fatto, credo, prendere coscienza di questa appartenenza a una cultura fondata sull’esilio e sulla speranza, sul cancellare e sul rifare.[1]
L’opera di Perec è interamente fondata sul tentativo di riempimento di quest’assenza costitutiva. La restituzione di un’identità transita in Perec attraverso il farsi carico di un’assenza, motivo ripetuto e semantizzato nella sua opera in mille forme, e con particolare insistenza mediante processi di astrazione del concetto, ad esempio nell’ossessiva riproposizione della restrizione lipogrammatica. La critica psicanalitica ha avuto così buon gioco nell’analizzare e precisare i campi d’applicazione letteraria di questa sottostante disposizione psicologica. Eleonora Bertacchini ne rintraccia, ad esempio, «i moduli espressivi cristallizzati del pensiero ossessivo»[2], che governano l’ansia combinatoria di Perec mediante procedure algoritmiche definalizzate:
Perec percorre spesso «tragitti algoritmici», vie dell’esattezza, quando utilizza ed inventa rebus, cruciverba, elencazioni, figure logiche (lipogramma, anacoluto…), procedimenti combinatori e matematici che istruiscono e regolano l’andamento dei racconti. Tuttavia se nella definizione dell’operazione algoritmica sono sempre chiari inizio e fine, al contrario i percorsi logici di Perec si muovono da un qui-ed-ora certo fino a giungere a ritroso al proprio inizio indefinito (la sparizione, il mistero, l’assenza dei ricordi)…[3]
Ma non è solo la pulsione all’esattezza a tamponare l’angoscia perecchiana del vuoto; la Bertacchini ricorda «come gli sia necessario, ogni volta, registrare nella memoria e poi nello scritto l’esperienza dell’oggetto per riconfermare la propria esistenza […]. Se l’esperire manca della sua prova, emerge nel vissuto personale il fantasma dell’annullamento e della perdita di controllo da parte dell’Io»[4]. Di qui la necessità della descrizione, dell’enumerazione, della classificazione, del dominio da realizzare sugli oggetti e gli spazi della sua esistenza, che cerca di sottrarre all’oblio. Tutte le linee narrative citate finora si saldano così in un quadro geneticamente unitario, a cui conduce lo stesso Perec.
Ciò che a noi interessa è però la traduzione di queste pressioni interne in tecniche narrative ed in moduli formali che sovrintendono alla produzione ed all’organizzazione del materiale narrato. In W ou le souvenir d’enfance (1975) ad esempio, libro nato sotto la pressione di una terapia analitica continuata, il rapporto tra finzione e autobiografia appare come lo svolgimento di due linee parallele che comunicano e si riflettono attraverso linee tratteggiate di cui è impossibile fornire una mappa:
L’idea di questo libro era la seguente: c’è da una parte ciò che potrei chiamare la biografia. E questa biografia era occultata, non c’erano più ricordi. La rifiutavo. Per sostituire questo rifiuto, per sostituire questo occultamento, ho inventato una storia quando avevo quindici anni. Ho inventato una storia che era una sorta di W. L’ho inventata, non sapevo per niente in quel momento che quella storia sostituiva la mia storia. E di fatto, molto più tardi, all’età di trenta o trentacinque anni, mi sono accorto che attraverso la storia di W raccontavo qualcosa che era successo a me. E in quel momento avevo la possibilità, soprattutto grazie al lavoro fatto in analisi, di mettere in atto un’anamnesi, di far riapparire i ricordi. Credo che le due parti del libro si inviino luci senza sosta, si illuminino a vicenda, ma mai direttamente.[5]
Che per Perec la regolamentazione ossessiva sia un tentativo di compensazione di una mancanza è evidente anche per la reiterazione di questo motivo, fino ai più remoti campi d’applicazione:
Ci sarebbe molto da dire sulla maniera di vivere con gli occhiali. Coloro che li portano, trasformano in gesti, in abitudini, in codici, quella mancanza, quella vaghezza che un bel giorno li ha obbligati a correggere le deficienze e le debolezze della loro vista con queste piccole protesi mobili.[6]
I procedimenti combinatori sono dunque leggibili come protesi testuali che correggono l’assenza di una radice “interiore” della narrazione. Nelle sue apparizioni più tipiche, il tema dell’assenza viene trattato da Perec con le pinze della formalizzazione astratta, che ne privilegia l’esposizione metaforica nell’assenza di un elemento da un insieme che dovrebbe contenerlo, ovvero dal confronto tra l’insieme “sano” e l’insieme “malato”, che genera la differenza di potenziale necessaria all’avvio del racconto.
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[1] Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, op. cit., p. 95.
[2] Eleonora Bertacchini, La vertigine tassonomica, «Riga», n° 4, p. 151.
[3] id., p. 153.
[4] id., p. 152.
[5] Conversazione con Eva Pawlikowska, op. cit., p. 102.
[6] Considerazioni sugli occhiali (in Le lunettes, Pierre Marly éd., Paris, Atelier Hachette/Massin, 1980), trad. it. in Pensare/Classificare, op. cit., pp. 128-29.