L’interprete critico di Calvino è fortunato: si trova di fronte una scrittura che, pur autodefinendosi «empirica», ovvero antisistematica, definisce delle regole di ascesa verso il valore letterario dell’esattezza:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco eikastikoz;
3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.[1]
La scrittura saggistica naturalmente conserva e definisce più spiccatamente tale propensione per le idee “chiare e distinte”, convogliandola in una «risoluta opzione per lo svolgimento lineare e progressivo».[2]
Se la materia del linguaggio non pone all’interprete problemi di ermetismo, di disambiguamento dell’espressione, l’evidenza dei significati è disegnata sul foglio calviniano mediante una sovrapposizione di strati che autorizza l’insubordinazione al principio di non contraddizione. Calvino sente spesso l’esigenza di precisare la natura della sua inesauribile “coazione a riscrivere”: un discorso che continuamente ricomincia da capo, come «cambio di rotta per dire qualcosa che con l’impostazione precedente non sarei riuscito a dire».[3]
La reimpostazione del discorso, come facoltà positiva dell’atteggiamento di ricerca, comporta però come corollario una disposizione originaria alla discordanza fra le singole analisi dello stesso oggetto, specie in un autore che consegna al valore della rapidità e dell’economia argomentativa una sterminata mole di opere, narrative e saggistiche. Qual’è il valore che il critico deve dare alle singole dichiarazioni di Calvino?
Ecco allora che si rende necessario delineare sinteticamente un’epistemologia del discorso calviniano. Occorre osservare in limine che il valore scientifico di questa ricognizione è già inficiato per ipotesi dalla concordanza dell’autore, che fornisce ammissioni di colpevolezza ad ogni causa di discordanza imputatagli (per alcune delle quali verrà riconosciuto innocente, in quanto causate da situazioni insite nel fatto letterario). Sono rintracciabili, pertanto, almeno quattro ordini di discordanze nel corpus degli scritti calviniani:
1) Un ordine evolutivo, storico, che evidenzia le discordanze come naturali ripensamenti critici, più marcati laddove si esprimevano giudizi condizionati da un clima letterario in rapido mutamento, dai paesaggi culturali che si sono avvicendati nel corso degli anni di militanza intellettuale di Calvino. Il discorso sulla portata conoscitiva della letteratura risulta uno dei più sensibili alla riformulazione sotto la stretta dei tempi.
Per Calvino la distanza riconosciuta dalle posizioni espresse nei saggi precedenti è la misura stessa della possibilità di ricomprenderli finalmente in un percorso definito, «per fermarli al loro posto nel tempo e nello spazio. Per allontanarli di quel tanto che permette d’osservarli nella giusta luce e prospettiva. Per rintracciarvi il filo delle trasformazioni soggettive e oggettive, e delle continuità. Per capire il punto in cui mi trovo. Per metterci una pietra sopra».[4]
La prima raccolta saggistica giunge solo nel 1980, manifestandosi proprio nei termini di resa a questo “primo principio di discordanza” per manifesta inferiorità:
Negli anni passati, a chi mi sollecitava a ripubblicare in volume qualcuno di questi testi, rispondevo che non riuscivo a vederli come definitivi, che avrei dovuto aggiungere altre pagine per precisare meglio il mio pensiero; oppure che li sentivo troppo legati a congiunture transitorie e che conveniva aspettare che nuovi corsi e ricorsi tornassero a dar loro attualità […]. Il volume esce ora che mi sono tanto allontanato dal punto di partenza da non saper più cosa potrei correggere o aggiungere.[5]
Viene dunque consegnato alla storia ciò che non può più essere reso concorde con la posizione attuale. Ma la distanza nella storia è per Calvino termine puramente concettuale: si riferisce ad una successione cronologica di posizioni di cui la distanza negli anni è solo una delle occorrenze, come dimostra un inciso del 1959 ad un discorso sul romanzo, che precorre i termini della questione posti in Una pietra sopra:
Devo riconoscere (malgrado che ciò minacci di portarmi lontano da quelli che sono stati le mie preferenze e i miei orientamenti di lettura finora; anche quelli espressi nelle altre risposte a questa inchiesta*, che vanno considerate cronologicamente precedenti al discorso che sto per fare*) che […][6]
La discordanza evolutiva è quindi funzione valida anche per un limite di distanza tendente a zero, caso limite che Calvino ha pur discusso in molteplici brani costruiti secondo la figura della correctio, dove il discorso ricomincia più volte in un unico testo falsificando le affermazioni precedenti (categoria che analizzeremo nel cap. 3).
2) Un ordine dialettico che evidenzia discordanze tra i singoli interventi saggistici per il fatto di essere determinati da spinte e controspinte degli interlocutori, input esterni che hanno funzione di clinamen nella linea del discorso ideale calviniano; o che subordina il significato alle sabbie mobili del linguaggio parlato, compresi «gli accidenti fonetici dell’espressione vocale»[7]. Conviene riportare per esteso un brano del 1973 di un colloquio con Ferdinando Camon:
Un racconto […] è qualcosa di definitivo, è scritto. Mentre gli interventi diciamo così teorici sono più dalla parte del parlato, hanno quel tanto d’approssimativo, d’effimero che è del parlato, comportano un certo disgusto che ho sempre avuto per la parola parlata: parlata da me, soprattutto. Ecco, ci posso fare su una teoria, se vuole (parlata: tanto poi me la dimentico): dell’espressione diretta delle mie idee e dei miei giudizi, diffido: mi pare che il peso delle idee ricevute e approssimative, delle parole che uso perché sono quelle a disposizione in quel momento per capirci (o per fregarci a vicenda) sia troppo forte. Solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente. [8]
Da quest’ordine sono ovviamente escluse le conferenze studiate a tavolino su argomenti scelti dallo stesso autore, dal contenuto estraneo ad ogni compromissione dialettica.
3) Un ordine anti-teorico, d’insubordinazione della prassi letteraria alla programmazione teorica, di costante discordanza tra l’argomentazione saggistica e le ragioni interne della produzione narrativa:
La ricorrente inclinazione a formulare dei programmi generali […] è stata sempre controbilanciata dalla tendenza a dimenticarmene subito e a non tornarci più sopra. Ci si può dunque chiedere per chi mai li formulassi, questi piani d’operazioni: non per me, dato che nel mio lavoro personale di scrittore quasi mai mettevo in pratica ciò che avevo predicato; non per gli altri, dato che non ho mai avuto la vocazione del caposcuola, del promotore e aggregatore. Direi che il mio obiettivo poteva essere quello di stabilire delle linee generali che facessero da presupposto al lavoro mio e degli altri; di postulare una cultura come contesto in cui situare le opere ancora da scrivere.[9]
La coscienza di questa discordanza non emerge dalla distanza di uno sguardo ricapitolativo, ma accompagna Calvino fin dall’inizio, dato che già nel 1956 postilla le sue idee generali sulla letteratura con commenti analoghi:
Sia ben chiaro però che mi guardo bene dal pretendere di riuscire a realizzare quello che vado predicando. Io scrivo come riesco a scrivere, di volta in volta. [10]
4) Un ordine epistemologico all’interno delle opere narrative, che privilegia la compresenza di una molteplicità di formulazioni, la cui discordanza è una caratteristica strutturale costante. Non si parla di una generica plurivocità legata alla rappresentazione di personaggi con opinioni necessariamente divergenti: poiché tale pluralità di visioni è presente anche e soprattutto internamente ai singoli personaggi. Né si può tirare in ballo il carattere psicologico dell’incostanza di giudizio nei personaggi calviniani: questi sono anzi presenze relativamente labili rispetto ai personaggi del romanzo classico, non gli si attribuisce la complessità di tratti psicologici necessaria a creare un “effetto di realtà”, un contesto realistico necessario a supportare un’accusa di incostanza; essi sono invece presenze-assenze (statuto semiologico che nella trilogia dei Nostri antenati prende corpo tematico nelle figure dei tre protagonisti) la cui unità è delimitata da poche costanti (il nome, qualche icastica caratteristica esteriore o pochi ed elementari tratti psicologici, insomma una stilizzazione modellata sul genere fiabesco).
Le discordanze stabilite volontariamente nel testo narrativo calviniano sono invece susseguenti all’adozione programmatica di una molteplicità di modelli, descrittivi od interpretativi di un oggetto, che si integrano o si escludono a vicenda: le discordi ipotesi scientifiche che, fungendo da aide-imagination nelle cosmicomiche, propongono miti delle origini tra loro incompatibili; i modelli della forma dell’impero nelle Città invisibili, speculazioni prodotte dalla cooperazione deduttiva di Polo e Kublai, evocati e subito decostruiti per l’assenza di strumenti di verifica empirica; le preferenze letterarie che si disfano come la tela di Penelope nella Lettrice di Se una notte, più che per incostanza per la sua natura plurima di ipostasi d’una categoria, pretesto strutturale per l’evocazione dei dieci incipit di romanzo che soddisfano il suo discorde appetito letterario.
L’assunzione operativa del modello epistemologico falsificazionista di Popper risulta decisiva per identificare le meccaniche del progetto letterario calviniano, che l’autore stesso delinea sinteticamente in uno scritto del 1967 su Vittorini: il «punto in cui oggi mi accade di trovarmi, […] quello del modello costruito per via deduttiva e che ha valore d’ipotesi operativa fino a quando non viene smentito sperimentalmente». Il valore di conoscenza dei modelli proposti dipende allora dalla loro “falsificabilità”: la carica conoscitiva della letteratura si dispiega appunto nella proposta di una molteplicità di modelli, “mondi possibili” che non si sottraggano ne’ alla reciproca discordanza, ne’ alla smentita dai fatti dell’esperienza.
I quattro ordini di discordanza rintracciati possono servire a delineare le quattro tappe di un percorso, altrettanti gradi di risoluzione del difficile rapporto di convivenza della naturale predisposizione definitoria e classificatoria di Calvino con le crepe dell’irresolutezza del senso: il primo ordine evolutivo impone il suo dominio dall’esterno, corrompendo la tessitura di un ordine coerente con i ghiribizzi della storia, e vincendo la strenua resistenza dell’autore, che infine ne prende atto; il secondo ordine dialettico progredisce nella direzione di una responsabilità parziale di Calvino, come uno dei poli tra i quali si origina la tensione deformatrice del significato; il terzo ordine anti-teorico investe l’autore della totale (e misteriosa, perché non meglio motivata) responsabilità nella disattenzione dei suoi stessi precetti; l’ultimo ordine epistemologico interiorizza infine l’evidenza dell’impossibilità della concordanza, assumendola negli ingranaggi del suo sistema come una discordanza prestabilita dell’atto scrittorio.
Se è l’autore stesso ad evidenziare le oscillazioni del discorso, non bisogna con questo concludere che il critico sia autorizzato ad una lettura liberamente destrutturante della produzione calviniana; tutt’altro: la scrittura di Calvino rimane ancora un modello di limpidezza, di pulizia linguistica dalle scorie dell’insignificanza. Ma è proprio per questo che nasce l’esigenza di saperne di più, di evidenziare le sfumature dei contorni del suo “illuminismo”. Che comprende anche percorsi di senso sorprendenti: così, tanto per esemplificare, è possibile scovare nell’oggetto indagato di «una possibile “scientificità” della critica»[11], soluzioni che, attraverso un accurato cromatismo argomentativo, convincono della non necessaria incongruità dell’atteggiamento scientifico con quello poetico: «Ogni vero libro di critica può essere letto come uno dei testi di cui tratta, come un tessuto di metafore poetiche».[12]
La difficile articolazione interna dell’intentio auctoris può forse essere delucidata da alcune considerazioni sulla pratica di Calvino “critico”, sull’articolazione simmetrica della sua intentio lectoris. Questa ci propone un ulteriore principio di discordanza, che non pone in contraddizione l’autore con sé stesso, ma il suo discorso con l’oggetto che si propone di analizzare.
Naturalmente l’apertura di senso di un testo permette già al critico Calvino «un discorso tutto soggettivo: ognuno scava da ogni libro il libro che gli serve, soprattutto quando è un libro ricco e complesso…»[13]. Tuttavia, non è questo fenomeno che qui ci interessa, quanto una particolare forma di strabismo interpretativo che talvolta si coglie nel suo discorso.
Calvino, parlando dei problemi postigli dalla scrittura di Palomar, confessa di non essere un buon osservatore. Effettivamente, egli stesso sottolinea a più riprese la tendenza del suo discorso a deflettere dall’oggetto d’analisi che si è (o gli è stato) posto. Già in una inchiesta del 1957 sul realismo fa infatti concludere il suo intervento da un inciso, come estremo atto di contrizione: «M’accorgo che ho parlato di tutto, tranne del realismo, tema della vostra inchiesta»[14]. Il saggio Filosofia e letteratura esce invece nel 1967 in «Fiera letteraria» preceduto da alcune righe di pugno dell’autore:
A Calvino era stato chiesto di scrivere su letteratura e filosofia, ma lo scrittore ha aggirato il tema facendo del suo articolo una specie di poetica e di mappa delle sue predilezioni fantastiche.[15]
Il fenomeno si ripete nel 1978, ma la chiosa di I livelli della realtà in letteratura adombra stavolta il dubbio di un suo utilizzo strategico, della sua assunzione a stilema, poiché giunge a proposito per manifestare un’impossibilità teorica di adesione all’oggetto d’indagine:
Al termine di questa relazione m’accorgo d’aver sempre parlato di «livelli di realtà» mentre il tema del nostro convegno suona (almeno in italiano): «I livelli della realtà». Il punto fondamentale della mia relazione forse è proprio questo: la letteratura non conosce la realtà ma solo livelli.[16]
Prescindendo dai reperti autocritici (veri o strumentali), ci s’imbatte spesso in implicite derive del discorso rispetto al nucleo originario, od anche in indebite trasfigurazioni discorsive di un concetto. E’ questo il caso di Mondo scritto e mondo non scritto (che analizzeremo più diffusamente), concetti individuati e nominati dapprima quali evidenze fenomeniche, stati della vita reale: stato delle esperienze di lettura-scrittura e stato delle esperienze del mondo reale. Da un certo punto nel discorso si fanno strada posizioni culturali, post-fenomeniche, che corrompono progressivamente i due concetti nella più generale contrapposizione tra letteratura e realtà. Allo stesso modo fallirà l’approccio fenomenologico di Palomar al reale, troppo mediato dalla forza che spinge Calvino a guardare oltre, ad attraversare l’oggetto osservato seguendo il filo invisibile di un ragionamento che percorre geometriche traiettorie culturali.
Calvino sembra lasciarci intendere che è l’oggetto stesso a voler essere attraversato dal discorso, che la natura dell’oggetto è friabile, inafferrabile, e lo sguardo che vi si proietta si trova necessariamente ad attraversarlo per forza d’inerzia. La permeabilità costitutiva dell’oggetto suggerisce automaticamente l’immagine della sabbia. Ed è infatti proprio in Collezione di sabbia, saggio eponimo della raccolta, che rintracciamo l’esempio più lampante della disattenzione di Calvino per l’oggetto, la cui friabilità anche materiale sembra qui raddoppiare la tentazione di attraversarlo. Operazione che Calvino effettua semplicemente con la sottrazione di un plurale: una collezione è infatti un’accumulazione di occorrenze singole di una determinata categoria, e come tale la sua specificazione esige il plurale: una collezione di francobolli, di stampe, di mariti.
La collezione reale a cui si riferisce Calvino è in realtà una collezione di sabbie, sottratte ai deserti di tutto il mondo: esse sono visibilmente diverse, per colore e grado di erosione. E’ la differenza nell’identità che muove la costanza del collezionista. Calvino, che lo sa bene, trascende ugualmente questa condizione preliminare fin dall’inizio: troppo ghiotta gli appare l’immagine di una collezione di sabbia, che riassume in sé un intero percorso intellettuale: la pulsione enciclopedica applicata ad un oggetto che oppone strenuamente ad essa l’irriducibile polverizzazione del reale.
Così decifrando il diario della melanconica (o felice?) collezionista di sabbia, sono arrivato a interrogarmi su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita, quella sabbia che adesso mi appare tanto lontana dalle spiagge e dai deserti del vivere. Forse fissando la sabbia come sabbia, le parole come parole, potremo avvicinarci a capire come e in che misura il mondo triturato ed eroso possa ancora trovarvi fondamento e modello.[17]
La sabbia come modello della disgregazione del mondo e del discorso su esso, entropizzato in una collezione seriale di parole i cui significati si confondono ed equivalgono. La deflezione dall’oggetto trova quindi nell’ultimo Calvino un fondamento nella sua costituzione polverizzata, che spinge a guardare oltre. La coerenza che Calvino attribuisce alla sua forma di lettura non è relativa alla definizione dell’oggetto, ma di una linea interpretativa, un’idea che utilizzi il referente del discorso come punto di partenza e centro di gravità (che infatti, in Collezione di sabbia, riporta l’attenzione sull’oggetto iniziale dopo aver descritto le altre collezioni della mostra parigina). Fedeli ad un significato originale, non all’oggetto. La fondamentale ansia conoscitiva che abita Calvino si trova quindi a convivere con questa divergente intenzione di lettura che egli vorrebbe estesa ad ogni operazione critica, la capacità di aprire orizzonti singolari che non descrivano l’oggetto di partenza, ma lo portino costantemente sottobraccio, come testimone del mondo di significati che esso stesso apre.
[1] Esattezza, in Lezioni Americane (1985), in Saggi, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 2 voll., p. 677.
[2] Mario Barenghi, Introduzione a Italo Calvino: Saggi, p. XXVI.
[3] Intervista di Maria Corti (1985), in Saggi, p. 2921.
[4] Prefazione a Una pietra sopra (1980), in Saggi, p. 8.
[5] Sotto quella pietra (1980), in Saggi, p. 400.
[6] Risposte a 9 domande sul romanzo (1959), in Saggi, p. 1524 (mio il corsivo).
[7] Sotto quella pietra (1980), op. cit., p. 399.
[8] Colloquio con Ferdinando Camon (1973), in Saggi, p. 2776.
[9] Prefazione a Una pietra sopra (1980), op. cit., p. 7.
[10] Questionario 1956, in Saggi, p. 2711.
[11] *La letteratura come proiezione del desiderio (Per l’*Anatomia della critica di Northrop Frye) (1969), in Saggi, p. 242.
[12] ibid., p. 250.
[13] ibid., p. 242.
[14] Questioni sul realismo (1957), in Saggi, p. 1519.
[15] Note introduttive a Filosofia e letteratura (1967), in Saggi, p. 188.
[16] I livelli della realtà in letteratura (1978), in Saggi, p. 398.
[17] Collezione di sabbia (1974), in Saggi, p. 416.